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Apparso su Repubblica Napoli l’8 febbraio 2018

Stabile. Un dizionario di sinonimi propone come valide alternative: solido, saldo, fisso, resistente, massiccio. Stabile è l’aggettivo utilizzato dal ministro per il Lavoro Poletti per definire lo 0,1 per cento in meno di disoccupati registrato nel dicembre 2017. Un incremento di occupazione inversamente proporzionale al monte di ore lavorate. Per verificare come si traduce questo dato nella vita vissuta di chi lavora tocca andare tra gli attivisti della Camera popolare del lavoro di Napoli, all’ex Opg “Je So’ Pazz”. «Questo mese ho tre contratti part- time – racconta Chiara, ventotto anni – il primo è in una scuola paritaria, un passaggio obbligato per chi come me vuole ottenere l’abilitazione all’insegnamento per poi poter esercitare la professione in una scuola pubblica. Ho conseguito la laurea magistrale in linguistica e traduzione in l’inglese e tedesco tre anni fa, da allora non sono stati più effettuati i cicli di tfa (tirocinio formativo attivo) indispensabili per l’abilitazione. Così si è prospettata la sola possibilità di prestare servizio in una scuola paritaria. È un contratto a regola d’arte: buste paga puntuali, contributi versati, assicurazione, solo non mi pagano. Proprio così: non mi pagano. Di netto nelle mie tasche non è mai entrato un solo centesimo di euro e mai ne entreranno. È una prassi conosciuta quanto indicibile quella di prestare servizio gratuito nelle scuole paritarie in cambio dei punti necessari per l’abilitazione all’insegnamento. Lo sanno al ministero, al provveditorato, lo sanno anche all’ispettorato del lavoro. Un lavoro comunque molto impegnativo, per certi versi più gravoso dell’insegnamento in una scuola pubblica. Quando lavori in una scuola statale hai orari definiti, concordi con la dirigenza gli appuntamenti extra- didattici, in una scuola paritaria invece sai quando entri e non hai idea di quando potrai uscire. Tocca dare una disponibilità totale per tutta la mattinata. Quanto dovrei essere pagata per le mie docenze presso la scuola paritaria? Per nove ore settimanali di netto dovrei ricevere poco più di cinquanta euro mensili. Una paga misera, una paga che comunque non vedo e non vedrò mai » .

Lo sguardo di Chiara è fisso verso di me. Il tono della voce assolutamente pacato nel descrivere una realtà che ha banalmente dell’assurdo. «Lavoro anche in una scuola pubblica, da due mesi, come supplente. Purtroppo non è continuativo, ogni mese vengo informata se il successivo sarò riconfermata o meno. Pare che quest’anno sia stata fortunata ad avere tre mesi di supplenza. È un lavoro ben retribuito questo, novecento euro mensili. A questa cifra va sottratto qualcosa, come il materiale didattico che la scuola non riesce a garantire. Ho diritto a sessanta fotocopie al mese e la mia classe conta ventotto studenti, quando chiedo agli studenti di ragionare per un compito in classe su una traccia lunga più di una pagina ho esaurito in un solo giorno le fotocopie garantite dall’istituto. Come terzo lavoro faccio l’istruttrice di nuoto in una piscina, tutti i pomeriggi dalle tre alle nove di sera. Esco di casa la mattina alle sette e vado a scuola per poi rientrare dalla piscina alle nove di sera, compresi gli spostamenti sono 14 ore di lavoro al giorno, se riesco mangio mentre mi reco da un posto di lavoro all’altro. Come istruttrice ho una convenzione con la Federazione italiana nuoto, ricevo per questo un contribuito normato da un contrattino valido da ottobre a giugno per le ore in cui presto servizio, cinquecento euro al mese. Se la piscina dovesse andare in manutenzione per un paio di settimane, come è accaduto quest’anno, io non verrei retribuita. Terminati i mesi di lavoro non ho assegno di disoccupazione».

Sul finire degli anni novanta c’era chi si batteva per la riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali. Questa settimana, Chiara, per conquistare i suoi 1.400 euro e la sua abilitazione all’insegnamento, ha lavorato 75 ore per sei giorni su sette. Chiara ha lavorato la media di dodici ore e mezzo al giorno. « È un mese fortunato questo, appena finisce la supplenza nella scuola pubblica, torno a guadagnare cinquecento euro per qualche ora di lavoro in meno». Chiara con i suoi tre contratti rappresenta bene la ripresa occupazionale vantata dal ministro Poletti. Dobbiamo volere molto bene a Chiara.

apparso su Repubblica Napoli il 18 dicembre 2017

A sinistra del Pd c’è un ceto politico senza troppo popolo, e poi c’è un popolo senza alcun ceto. Provate a invitare per un caffè una o uno degli amici o conoscenti che ciascuno di noi ha tra i molti iscritti alla Fiom nei sempre più svuotati poli industriali. Oppure chi fatica – passatemi l’appropriato napoletanismo – nei luoghi della torsione dei diritti del lavoro precedentemente acquisiti. Vi accorgerete di un popolo senza casa politica. Che si tratti di un lavoratore della logistica di Amazon nel piacentino o della Rca di Nola, di un dipendente di Eataly o di un corriere privato, oppure di un escluso dal lavoro, la confidenza non troppo riservata sarà sempre che oggi i Cinquestelle sono ancora meglio di tutto il resto. Ma alla vigilia dell’apice del consenso possibile per i ragazzi cresciuti con Grillo, serpeggia la consapevolezza che tutto questo non basta. Non basterà dare al Movimento il primato di partito più votato e forse a Luigi Di Maio il titolo di candidato primo ministro più votato. Tutto questo non sarà sufficiente ad imporre quella radicalità necessaria sul mercato del lavoro e sulla tutela dei diritti fondamentali. È un senso di controllato smarrimento molto diffuso in quella fetta di abitanti, non tutti necessariamente cittadini, che cerca di coniugare radicalità con tutela e ampliamento dei diritti. Le parole di Pietro Grasso due domeniche fa dal palco di Liberi e Uguali erano per questo popolo sicuramente nobili, ma non credibili. Chi ha l’urgenza di porre un freno alla precarizzazione dell’esistenza delle ultime due generazioni parla tutto d’un fiato, ha un lessico che ha sì le sue radici nella storia dei movimenti e delle lotte sociali, ma lo declina con una rinnovata urgenza. Lo spartiacque di chi si è formato politicamente prima del G8 di Genova e chi durante o dopo è oggi conclamato. Basta scorgere le foto della platea del battesimo di Liberi e Uguali per accorgersi di quale ceto, nazionale e locale, fosse presente. Quasi tutti ex di un qualcosa, approdati nel medesimo punto dopo un lungo o breve esodo. Un esodo di solo ceto politico. Vi erano ex ministri ed ex parlamentari, i quali hanno comunque partecipato alla decostruzione del mercato del lavoro, hanno votato finanziarie che hanno compresso diritti fondamentali, che non hanno avuto il coraggio di imporre una agenda politica sul primato dei diritti e dei beni comuni. Sembrava un po’ un raduno di vecchie glorie, un tentativo di costruzione di una storia futuribile, interpretato però da autorevoli personalità di un più o meno recente passato. Nel frattempo, in tutto il paese, sono nate assemblee per la costruzione di una lista elettorale capace di dare rappresentanza a questo popolo senza ceto. Nel cono d’ombra del mainstream si svolgono ogni giorno numerose iniziative trasmesse in diretta facebook. Sempre domenica scorsa bastava sommare i partecipanti dell’assemblea di Milano e di Catania per aver pareggiato i conti con la platea di Grasso. Ad aver dato l’avvio a questo processo è stato l’Ex Opg “Je So Pazzo” di Napoli, una struttura sociale nata dall’agibilità creata dal sindaco Luigi de Magistris, collettivo meritevole di aver ricomposto un pezzo di società ormai rassegnato. Non è forse un caso che il bel libro di Marta Fana “Non è lavoro, è sfruttamento” apre le prime pagine descrivendo il corteo degli sfruttati del comparto turistico organizzato dall’Ex Opg lo scorso primo maggio. I sindacati ormai disertano in importanti città questa festa. A Napoli, irriconoscibili perché vestiti da fantasma, sfilavano dinanzi ai propri datori di lavoro camerieri, guide turistiche, tutti sottopagati e senza contratto. Ad accompagnare questo percorso c’è al momento Rifondazione Comunista, rea per alcuni di aver fatto saltare il banco del Brancaccio voluto da Anna Falcone e Tomaso Montanari, teatro che aveva escluso proprio i militanti dell’Ex Opg sia tra i relatori ma anche tra il pubblico. I sondaggisti delle varie trasmissioni cominciano a far comparire un generico “altra sinistra” dato tra l’1,5% e il 2,5%, un qualcosa di ancora non decifrabile, ma che sarà interpretabile qualora questa sinistra riuscisse a presentare le liste e ad avere un candidato primo ministro. Il nome che si sono dati è “Potere al popolo”, una assunzione esplicita di populismo, che va inteso come restituzione di sovranità legittima.