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Intervento apparso su Repubblica Napoli il 21 giugno 2019

Fin quando i diritti e i valori legiferati dalla Costituzione repubblicana erano considerati patrimonio comune, con una tensione all’universalismo, allo sconfinamento dell’egualitarismo, essere di sinistra era cosa facile. Quasi una educazione sentimentale impartita fin da cuccioli.

Ricordo la maestra delle elementari che leggeva in classe le missive di Sandro Pertini allora Presidente della Repubblica: la lettera per il primo giorno di scuola, per l’ultimo, alla viglia del 25 aprile e del Primo maggio e un anno ricordo addirittura una lettera decontestualizzata dalla mera ricorrenza, un riferimento ad una commemorazione non inclusa nel calendario scolastico, il ricordo dei lavoratori migranti del disastro di Marcinelle. Oggi, neoquarantenne, fatico a riconoscermi in una sinistra inclusiva che vada oltre qualche buon convitato accuratamente selezionato su un bancone di un bar. Patisco una preventiva spossatezza a sentirmi italiano, ad avere quindi un legame affettivo per un sentire comunitario. Ritorno italiano solo con la nazionale di pallavolo femminile, cioè quando senza le nere, che fanno un terzo della formazione titolare, siamo meno forti. Mi chiedo quanto i governanti di oggi vorrebbero ricordare i morti di Marcinelle, una ricorrenza sì patriottica ma di una patria che rivendicava il diritto al lavoro e a emigrare. Mi scopro però complice di una deresposabilizzazione generale, reo di rifugiarmi in un individualismo esasperato e di rendermi passivo verso processi ritenuti ingovernabili e indipendenti all’intervento di singoli e di comunità. Sento di fare un torto a Sandro Pertini, di non ottemperare all’educazione sentimentale che mi ha impartito come fosse stato nonno di tutti gli italiani, ma anche dei non italiani, ad esempio dei palestinesi che venivano protetti dai Bersaglieri a Sabra e Chatila.

Di tanto in tanto, in vista delle scadenze elettorali, quando gli assetti politici che hanno governato istituzioni negli ultimi anni cominciano a scricchiolare, torna la stagione degli appelli al civismo e all’unità. La fenomenologia è comprovata: un imprenditore culturale, un compagno datosi al sociale e uno al sindacato mettono in calce il loro nome a un bel testo e chiamano a raccolta i loro, solo che i loro non ci sono. Non ci sono i lavoratori dell’immateriale, non ci sono i precari del terzo settore e le professioni deprofessionalizzate istituzionalmente che non trovano più riparo dai sindacati. Non ci sono i riders, chi porta la spesa nelle case perché non inquadrati dalla gestione giudiziaria del Sole365, non ci sono i lavoratori a nero e i disoccupati. Non ci sono gli esclusi dalla inconsapevole deindustrializzazione del nostro territorio.

Tocca mischiarsi a loro, seguire le loro forme di auto organizzazione e supportarli, agevolarli, mettersi a disposizione. Ha ragione Andrea Morniroli quando dice che non possiamo accontentarci di una contrapposizione di personalismi, nessuno si accontenterà nemmeno di una lista di nomi rispettabili. Non bastano quei nomi alla ricostruzione di una sinistra egualitaria e libertaria, non serve ricorrere alla partecipazione per ottemperare l’idea di “inclusività” di ceto politico biascicato da coloro che ancora non trovano il pudore di considerare in modo sincero le ragioni del disastro politico provocato. È necessario ammettere le proprie responsabilità e porsi per far emergere una nuova classe dirigente, non i loro cloni o i cloni dei precedenti, tocca insomma evacuare la testa del convoglio per spingerlo dalle retrovie. Solo così si recupera in rappresentanza. Che la nostra idea di mondo, ammesso che ne abbiamo una, che sia umilmente in favore di chi cerca rappresentanza e voce, di chi chiede che la piramide venga radicalmente capovolta. Con gli oppressi del mondo e della nostra città, con le loro proposte che esistono e vanno prese in considerazione. Ho scritto cose banali, ne sono consapevole, ma non vedo altri suggerimenti per ripartire.

Altrimenti avranno ragione loro, gli esclusi, anche se legittimano le formazioni politiche ree dello sfascio della nostra comunità.

apparso su Repubblica Napoli il 18 dicembre 2017

A sinistra del Pd c’è un ceto politico senza troppo popolo, e poi c’è un popolo senza alcun ceto. Provate a invitare per un caffè una o uno degli amici o conoscenti che ciascuno di noi ha tra i molti iscritti alla Fiom nei sempre più svuotati poli industriali. Oppure chi fatica – passatemi l’appropriato napoletanismo – nei luoghi della torsione dei diritti del lavoro precedentemente acquisiti. Vi accorgerete di un popolo senza casa politica. Che si tratti di un lavoratore della logistica di Amazon nel piacentino o della Rca di Nola, di un dipendente di Eataly o di un corriere privato, oppure di un escluso dal lavoro, la confidenza non troppo riservata sarà sempre che oggi i Cinquestelle sono ancora meglio di tutto il resto. Ma alla vigilia dell’apice del consenso possibile per i ragazzi cresciuti con Grillo, serpeggia la consapevolezza che tutto questo non basta. Non basterà dare al Movimento il primato di partito più votato e forse a Luigi Di Maio il titolo di candidato primo ministro più votato. Tutto questo non sarà sufficiente ad imporre quella radicalità necessaria sul mercato del lavoro e sulla tutela dei diritti fondamentali. È un senso di controllato smarrimento molto diffuso in quella fetta di abitanti, non tutti necessariamente cittadini, che cerca di coniugare radicalità con tutela e ampliamento dei diritti. Le parole di Pietro Grasso due domeniche fa dal palco di Liberi e Uguali erano per questo popolo sicuramente nobili, ma non credibili. Chi ha l’urgenza di porre un freno alla precarizzazione dell’esistenza delle ultime due generazioni parla tutto d’un fiato, ha un lessico che ha sì le sue radici nella storia dei movimenti e delle lotte sociali, ma lo declina con una rinnovata urgenza. Lo spartiacque di chi si è formato politicamente prima del G8 di Genova e chi durante o dopo è oggi conclamato. Basta scorgere le foto della platea del battesimo di Liberi e Uguali per accorgersi di quale ceto, nazionale e locale, fosse presente. Quasi tutti ex di un qualcosa, approdati nel medesimo punto dopo un lungo o breve esodo. Un esodo di solo ceto politico. Vi erano ex ministri ed ex parlamentari, i quali hanno comunque partecipato alla decostruzione del mercato del lavoro, hanno votato finanziarie che hanno compresso diritti fondamentali, che non hanno avuto il coraggio di imporre una agenda politica sul primato dei diritti e dei beni comuni. Sembrava un po’ un raduno di vecchie glorie, un tentativo di costruzione di una storia futuribile, interpretato però da autorevoli personalità di un più o meno recente passato. Nel frattempo, in tutto il paese, sono nate assemblee per la costruzione di una lista elettorale capace di dare rappresentanza a questo popolo senza ceto. Nel cono d’ombra del mainstream si svolgono ogni giorno numerose iniziative trasmesse in diretta facebook. Sempre domenica scorsa bastava sommare i partecipanti dell’assemblea di Milano e di Catania per aver pareggiato i conti con la platea di Grasso. Ad aver dato l’avvio a questo processo è stato l’Ex Opg “Je So Pazzo” di Napoli, una struttura sociale nata dall’agibilità creata dal sindaco Luigi de Magistris, collettivo meritevole di aver ricomposto un pezzo di società ormai rassegnato. Non è forse un caso che il bel libro di Marta Fana “Non è lavoro, è sfruttamento” apre le prime pagine descrivendo il corteo degli sfruttati del comparto turistico organizzato dall’Ex Opg lo scorso primo maggio. I sindacati ormai disertano in importanti città questa festa. A Napoli, irriconoscibili perché vestiti da fantasma, sfilavano dinanzi ai propri datori di lavoro camerieri, guide turistiche, tutti sottopagati e senza contratto. Ad accompagnare questo percorso c’è al momento Rifondazione Comunista, rea per alcuni di aver fatto saltare il banco del Brancaccio voluto da Anna Falcone e Tomaso Montanari, teatro che aveva escluso proprio i militanti dell’Ex Opg sia tra i relatori ma anche tra il pubblico. I sondaggisti delle varie trasmissioni cominciano a far comparire un generico “altra sinistra” dato tra l’1,5% e il 2,5%, un qualcosa di ancora non decifrabile, ma che sarà interpretabile qualora questa sinistra riuscisse a presentare le liste e ad avere un candidato primo ministro. Il nome che si sono dati è “Potere al popolo”, una assunzione esplicita di populismo, che va inteso come restituzione di sovranità legittima.