commento apparso su Repubblica Napoli l’8 maggio 2018
Come acqua nel deserto Napoli necessita di luoghi e di occasioni di promiscuità sociale. È l’ossigeno indispensabile per la città obliqua, la puntellatura necessaria per una ripresa culturale che significa oggi più che mai messa in sicurezza. La storia della città da sempre è raffigurabile con un’onda sinusoidale dalla forma quasi perfetta: il senso di comunità e l’orgoglio di farne parte, la gioia di mostrarsi ad una alterità qualsiasi che sia il migrante appena sbarcato o l’ultimo re ( meglio se l’ultimo pallone d’oro), la coscienza di appartenere a vicoli sorretti da un basalto lastricato di una sensualità disarmante, tutto questo tocca vette altissime nell’espressione dell’amor proprio come bassissime nella pratica di inamovibile autocommiserazione e frammentazione. È una torta millefoglie che implora di essere rotta, scomposta, mischiata. Come quando scendi correndo dal Vomero per via Palizzi e, in una sola apnea, attraversi l’aristocrazia della parte altra, il ceto medio in prossimità del Corso e dopo questo l’anima dei bassi vissuti oggi da napoletani come da migranti di ogni dove, per ritrovarti ancora una volta immerso su via dei Mille in una strada “d’uommene scicche” e ” femmene pittate”. La fine delle politiche sociali cominciate negli anni’ 90 ha fatto sì che la promiscuità fosse sempre meno una missione delle istituzioni pubbliche. Con la fine del progetto ” chance” la contaminazione in casa nostra è affare quasi esclusivo di privati, le ong non operano solo all’estero ma anche nelle zone di guerra sociale malsopita dei nostri confini. Di quella stagione che metteva al centro la promiscuità si sono salvati, chi più prestigiosamente e chi meno, solo i maestri. Gli operatori che erano il reale veicolo di contaminazione sono stati abbandonati alla loro strada con il solo patrimonio di emozioni e stipendi arretrati, tanti stipendi arretrati. L’alterità della nostra città è stata stereotipata grazie ad una serie televisiva, da emulare se si vuol essere malamente, da adorare se ci si astiene dal volerlo essere. Sicuramente un prodotto televisivo di altissima qualità. Il cantante Liberato invece è un punto di incontro tra le anime di questa città, almeno per una parte di esse. Per una volta i capelli lisci delle ragazze dei quartieri, lisci come nessun parrucchiere di Chiaia saprebbe fare, lisci come nessuna piastra accompagnata da una mano che non sia la loro saprebbe fare, lisci da poter mandare in deroga l’obbligo del casco quando sfrecciano sul motorino per ragioni di informale arredo urbano ( provocazione), lisci o non lisci da spiegare a tutti che non per questo meriterebbero certo di essere presi a schiaffi da un pubblico ufficiale, ecco quei capelli lisci finalmente non sono oggetto di demonizzazione ma punto di incontro. Negli ultimi pezzi e nei video di un bravissimo Francesco Lettieri che annunciano il concerto del 9 maggio sulla rotonda del generale Diaz il romanzo (quasi) popolare di Liberato svela un pluralismo prospettico delle anime della città. Per questo Liberato va elogiato, evitando di chiedersi se sia o meno un artificio, senza domandarsi quanto sia un prodotto originale, non cedendo alla curiosità di voler scoprire chi si sia dietro questo nome che fa eco al lungomare. Nell’anonimato dell’artista risiede con più agio la promiscuità sociale del fenomeno. Difendiamola, raccontiamola in ogni sua declinazione, facciamolo partecipando al concerto, i curiosi tutti della città con gli amici. È una occasione rara per osservarci. Sfruttiamola.
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Intervista apparsa su Il Desk il 16 aprile 2014
Truppi ma quando stoni sbagli o lo fa di proposito?
Mi sono fatto l’idea che sbagliare è quando non c’è corrispondenza tra intenzione ed esito. Questo per fortuna per quanto riguarda la parte “canora” del mio disco non si verifica. Ti devo anche dire che non è accaduto nemmeno che in studio mi sia messo dietro il microfono dicendomi “dai, ora stona”.
Quali sono oggi e sono stati in passato i tuoi riferimenti tra i cantautori italiani e stranieri?
Fabrizio De André, Piero Ciampi, Gianfranco Marziano, Paolo Conte, John Lennon, Jacques Brel.
Stai per caso maturando la scelta di fare pezzi più orecchiabili per vivere di sola musica?
Il fatto è che sono convinto che le mie canzoni siano estremamente orecchiabili.
Come va con le aperture agli Zen Circus? Meglio che pascolare nel cantautorato romano? Approposito che pensi del cantautorato romano?
Per ora con gli Zen ho fatto solo l’Alcatraz a Milano ed è andata molto bene, vediamo che succede con le prossime date. Non capisco bene che vuol dire pascolare nel cantautorato romano, ma comunque io non pascolo. Non ho mai pascolato. Non penso niente di specifico sul cantautorato romano in quanto diverso da quello italiano o milanese. In generale, per come è costruita la mia sensibilità, mi colpiscono i singoli.
Sei tra i pochi, se non l’unico, napoletano con riferimenti discreti alla città. Nel video “La Domenica” le zone intorno piazza Vanvitelli sono mischiate con scene di quartieri romane, quasi una Napoli denapoletanizzata come il tuo cantare… insomma che rapporto hai con Napoli e i napoletani e la scena napoletana?
Napoli mi mette in difficoltà, come tutto quello che mi costringe ad entrare in contatto con le viscere indipendentemente dalla mia volontà. Quello dei napoletani continua ad essere il mio sguardo preferito sulla realtà. Riguardo la scena napoletana è un po’ come la domanda di prima: ci sono alcuni artisti a Napoli che stimo molto e da alcuni credo di essere ricambiato. Sul resto non ti so dire granché.