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Articolo apparso su QCodemag

Volevano il vertice della multinazionale al tavolo, volevano guardarlo in faccia, osservarlo bene mentre decretava la sorte di 420 lavoratori dello stabilimento di Napoli, più circa 200 dell’indotto mono commissione dell’avellinese, e i 60 del casertano.

Lo hanno preteso, lo hanno avuto, ha parlato, non lo hanno capito. Non lo hanno compreso perché ha parlato in inglese, tanto è bastato affinché il ministro Di Maio fraintendesse con un “non c’è mai stata l’intenzione né della chiusura, né del disimpegno da parte della multinazionale” quello che il luogotenente della multinazionale su Napoli ha dovuto esplicitare in italiano e quindi con maggior chiarezza: “a Napoli siamo in perdita, non bastano gli incentivi”.

Fino ad allora, agli appuntamenti precedenti, il titolare dei dicasteri del Lavoro e dello Sviluppo economico aveva parlato come un sindacalista di prima formazione mentre i sindacati, a fasi alterne e con piccole sfumature, a secondo dell’organizzazione di appartenenza, aprivano e chiudevano come una fisarmonica a prospettive di terziarizzazione per lo stabilimento e i lavoratori napoletani.

A rendere tutto più chiaro Carlo Calenda, autoproclamatosi ministro ombra nel ludico esercizio di mostrarsi più autorevole di un evanescente Di Maio (non ci vuole molto), spiegava sulla propria bacheca facebook quella che dovrebbe considerarsi la massima aspirazione per i lavoratori di via Argine: “Whirlpool cederà l’impianto all’imprenditore identificato, terrà una quota e lo aiuterà. Quello che voleva fare dall’inizio, il resto è sceneggiata. Ciò detto non c’erano oggettivamente alternative e adesso occorre valutare la solidità del business plan”. Esercizio di realismo tetro, terrificante, perché il ricorso ai “terzisti” è storia di lenta dismissione pagata quasi sempre dal contribuente.

A partire dalla Danone sul finire degli anni Novanta, fino alle recenti storie dell’Alcatel di Battipaglia o della Jabil (ex Ericson) di Marcianise il nostro territorio è una epistassi industriale che sembra inarrestabile. Napoli non ha più una zona industriale, Bagnoli è una spianata con qualche sporadica start up, l’area orientale un deposito a disposizione della logistica per container a ridosso del porto. A Napoli il manifatturiero è quasi estinto.

Non se la passano meglio nel resto dell’Europa. In Francia ad esempio, tra gli stessi ex impiegati della multinazionale Whirlpool. Ad Amiens, città di 130mila anime nel nordest transalpino, la multinazionale in questione fabbricava lavatrici e asciugatrici, nel 2002 ha delocalizzato la produzione in Slovacchia perché il personale francese incideva il 12% sui costi di fabbricazione contro il 2% degli slovacchi.

Sedici anni più tardi la mazzata: il terzista locale Nicolas Decayeux preleva lo stabilimento e fonda WN (che sta per Whirlpool Nicolas, sic!), la multinazionale liquida la propria responsabilità sociale contribuendo con 45mila euro per ogni operaio riassunto e Macron regala dalle casse di stato 4 milioni di euro.

Sono assunti di nuovo 162 gli operai sui 282 precedentemente impiegati con l’impegno di recuperare i livelli occupazionali nel giro di due anni. La multinazionale avrebbe contribuito fornendo know how per una missione produttiva in continuità perché si andavano a produrre armadietti e bagagli refrigerati per l’ultimo miglio della filiera distributiva e mezzi di trasporto elettrici per chi non ha la patente: la WN Lander.

Macron ha tagliato il nastro della ripresa dei lavori, dopo un anno Libération riferisce che nulla dei beni prodotti è stato mai venduto, stabilimento oggi chiuso e governo francese costretto a pagare la disoccupazione a chi oggi non ha più mansioni.

In Cracking, romanzo di Gianfranco Bettin, recentemente uscito per Mondadori, la dismissione del polo industriale di Porto Marghera viene così raccontata:


Era l’epoca delle grandi ristrutturazioni che, ogni volta, comportavano tagli di posti, chiusure di reparti. La proprietà veniva spezzettata e cambiava di continuo. Si firmavano accordi con una controparte che poi cedeva la sua quota ad altri e quindi spariva, mentre i subentranti non si sentivano vincolati dagli accordi sottoscritti in precedenza. La proprietà pubblica diventava privata e poi di nuovo pubblica e poi partecipata tra pubblico e privato e poi multinazionale e poi più niente, si chiudeva e basta. Era diventata un’area di crisi: il rischio ambientale, il rischio sanitario, il rischio del licenziamento. E spesso era quest’ultimo a essere temuto di più. Almeno finché potevi non pensare alla salute.

L’attuale governo, in continuità con i precedenti si limita ad ammortizzare le difficoltà dei lavoratori in esubero. L’attuale governo, in continuità con i precedenti, non ha la più pallida idea di come si possa rilanciare le attività produttive o di come si possano arginare iniziative predatorie da parte di pseudo imprenditori senza scrupoli. Spesso, anzi, l’attuale governo, in continuità con i precedenti,  se ne rende complice finanziando opere di terziarizzazione.

apparso su Repubblica Napoli il 18 dicembre 2017

A sinistra del Pd c’è un ceto politico senza troppo popolo, e poi c’è un popolo senza alcun ceto. Provate a invitare per un caffè una o uno degli amici o conoscenti che ciascuno di noi ha tra i molti iscritti alla Fiom nei sempre più svuotati poli industriali. Oppure chi fatica – passatemi l’appropriato napoletanismo – nei luoghi della torsione dei diritti del lavoro precedentemente acquisiti. Vi accorgerete di un popolo senza casa politica. Che si tratti di un lavoratore della logistica di Amazon nel piacentino o della Rca di Nola, di un dipendente di Eataly o di un corriere privato, oppure di un escluso dal lavoro, la confidenza non troppo riservata sarà sempre che oggi i Cinquestelle sono ancora meglio di tutto il resto. Ma alla vigilia dell’apice del consenso possibile per i ragazzi cresciuti con Grillo, serpeggia la consapevolezza che tutto questo non basta. Non basterà dare al Movimento il primato di partito più votato e forse a Luigi Di Maio il titolo di candidato primo ministro più votato. Tutto questo non sarà sufficiente ad imporre quella radicalità necessaria sul mercato del lavoro e sulla tutela dei diritti fondamentali. È un senso di controllato smarrimento molto diffuso in quella fetta di abitanti, non tutti necessariamente cittadini, che cerca di coniugare radicalità con tutela e ampliamento dei diritti. Le parole di Pietro Grasso due domeniche fa dal palco di Liberi e Uguali erano per questo popolo sicuramente nobili, ma non credibili. Chi ha l’urgenza di porre un freno alla precarizzazione dell’esistenza delle ultime due generazioni parla tutto d’un fiato, ha un lessico che ha sì le sue radici nella storia dei movimenti e delle lotte sociali, ma lo declina con una rinnovata urgenza. Lo spartiacque di chi si è formato politicamente prima del G8 di Genova e chi durante o dopo è oggi conclamato. Basta scorgere le foto della platea del battesimo di Liberi e Uguali per accorgersi di quale ceto, nazionale e locale, fosse presente. Quasi tutti ex di un qualcosa, approdati nel medesimo punto dopo un lungo o breve esodo. Un esodo di solo ceto politico. Vi erano ex ministri ed ex parlamentari, i quali hanno comunque partecipato alla decostruzione del mercato del lavoro, hanno votato finanziarie che hanno compresso diritti fondamentali, che non hanno avuto il coraggio di imporre una agenda politica sul primato dei diritti e dei beni comuni. Sembrava un po’ un raduno di vecchie glorie, un tentativo di costruzione di una storia futuribile, interpretato però da autorevoli personalità di un più o meno recente passato. Nel frattempo, in tutto il paese, sono nate assemblee per la costruzione di una lista elettorale capace di dare rappresentanza a questo popolo senza ceto. Nel cono d’ombra del mainstream si svolgono ogni giorno numerose iniziative trasmesse in diretta facebook. Sempre domenica scorsa bastava sommare i partecipanti dell’assemblea di Milano e di Catania per aver pareggiato i conti con la platea di Grasso. Ad aver dato l’avvio a questo processo è stato l’Ex Opg “Je So Pazzo” di Napoli, una struttura sociale nata dall’agibilità creata dal sindaco Luigi de Magistris, collettivo meritevole di aver ricomposto un pezzo di società ormai rassegnato. Non è forse un caso che il bel libro di Marta Fana “Non è lavoro, è sfruttamento” apre le prime pagine descrivendo il corteo degli sfruttati del comparto turistico organizzato dall’Ex Opg lo scorso primo maggio. I sindacati ormai disertano in importanti città questa festa. A Napoli, irriconoscibili perché vestiti da fantasma, sfilavano dinanzi ai propri datori di lavoro camerieri, guide turistiche, tutti sottopagati e senza contratto. Ad accompagnare questo percorso c’è al momento Rifondazione Comunista, rea per alcuni di aver fatto saltare il banco del Brancaccio voluto da Anna Falcone e Tomaso Montanari, teatro che aveva escluso proprio i militanti dell’Ex Opg sia tra i relatori ma anche tra il pubblico. I sondaggisti delle varie trasmissioni cominciano a far comparire un generico “altra sinistra” dato tra l’1,5% e il 2,5%, un qualcosa di ancora non decifrabile, ma che sarà interpretabile qualora questa sinistra riuscisse a presentare le liste e ad avere un candidato primo ministro. Il nome che si sono dati è “Potere al popolo”, una assunzione esplicita di populismo, che va inteso come restituzione di sovranità legittima.