Articoli

di Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo

Mustafa Barghouti è medico e attivista palestinese. Dirige una Ong che ha 32 équipe sanitarie a Gaza: “Ci raccontano storie terribili, sono esausti”. Nella Striscia sono stati sganciati 30 chilogrammi di esplosivo per ogni abitante, uccidendo almeno 13.500 bambini e lasciandone 20mila orfani. Sugli aiuti dal cielo, spiega, è pura ipocrisia.

Bombardamenti indiscriminati e stragi di civili colpiscono la Striscia di Gaza da cinque mesi; 1,5 milioni di palestinesi sono profughi nella città di Rafah, minacciati da un’imminente espulsione e da una carestia. Gli aiuti umanitari che potrebbero raggiungere Gaza via terra sono bloccati da Israele mentre un quantitativo insufficiente di cibo viene paracadutato dal cielo. Per buona parte dell’opinione pubblica mondiale si stanno toccando nuove vette di disumanità. Ne abbiamo parlato con Mustafa Barghouti, medico e attivista palestinese, segretario generale dell’Iniziativa nazionale palestinese e della Ong Palestinian medical relief society.

Barghouti, gli Stati Uniti hanno proposto un porto galleggiante per garantire l’accesso degli aiuti e aggirare il blocco. Via terra o via mare, Israele decide infatti che cosa può entrare nella Striscia di Gaza, i cui abitanti versano in una gravissima crisi umanitaria. Che cosa ne pensa?
MB 
Ciò a cui stiamo assistendo sono terribili crimini di guerra, un comportamento selvaggio, senza precedenti. Abbiamo a che fare con un governo fascista che è andato oltre ogni livello di rispetto dei diritti umani ma non sarebbe stato in grado di farlo senza la complicità degli Stati Uniti e il silenzio dell’Occidente: c’è molta complicità, e persino partecipazione, ai crimini di guerra contro Gaza. Israele sta bloccando l’ingresso di migliaia di camion di aiuti umanitari, negando l’accesso a quei rifornimenti così necessari per le persone che sta affamando, per le 54mila donne che non possono allattare al seno o le 50mile donne incinte a rischio. Invece di fare pressione su Israele affinché permetta ai camion di passare, distraggono il mondo con questa stupidaggine di paracadutare gli aiuti: la metà finisce in mare o negli insediamenti israeliani, il resto è insufficiente. A causa dei paracadute sono morte sei persone e 12 sono rimaste ferite. È un modo per distogliere l’attenzione dalla realtà, terribile, che gli Stati Uniti consentono. E l’idea del porto non è migliore. Perché dobbiamo aspettare due o tre mesi, così che la metà di coloro che oggi stanno morendo di fame saranno già morti, invece di dire a Israele di lasciare entrare i camion degli aiuti a Gaza? Temo che questo porto costruito da Israele, sotto il suo controllo, sia un modo per consolidare la rioccupazione di Gaza e venga usato per la pulizia etnica del popolo della Striscia.

Sostegno e legittimazione per le aspirazioni palestinesi sono venuti da democrazie recenti ma non dagli Stati Uniti e dall’Europa. La Palestina troverà mai un pieno riconoscimento?
MB
 Sono 30 anni che sentiamo discorsi sulla soluzione dei due Stati e molti dei Paesi occidentali ancora non riconoscono la Palestina. È una tale ipocrisia parlare di questo progetto e poi riconoscere solamente Israele. È davvero ipocrita continuare a dire che gli insediamenti sono illegali e non intraprendere azioni punitive. Quando si confronta la posizione sull’Ucraina con quella sui territori palestinesi occupati si evincono l’ipocrisia e i doppi standard. In Ucraina hanno imposto sanzioni alla Russia e inviato miliardi di dollari in aiuti e attrezzature militari. Nel caso della Palestina hanno spedito tonnellate di esplosivo agli occupanti, all’esercito israeliano, e continuano a parlare del diritto di Israele a difendersi come se questo equivalesse a quello di massacrare i palestinesi. Gli Stati Uniti hanno fornito 28mila tonnellate di esplosivo allo Stato ebraico, che ne ha sganciato in tutto 70mile tonnellate in un’area di 365 chilometri quadrati: 30 chilogrammi di esplosivo per ogni uomo, donna e bambino, il doppio della potenza delle due bombe nucleari utilizzate contro il Giappone.

Metà dei governi del mondo definisce quanto accaduto il 7 ottobre come un atto di terrorismo, mentre l’altra metà come un’azione di resistenza. Con la questione palestinese in cima all’agenda internazionale, il grande assente in questa narrazione è la società civile palestinese in Cisgiordania e una mobilitazione che rappresenti l’evoluzione dell’Intifada. Perché?
MB Non sono d’accordo, penso che la Cisgiordania stia vivendo una nuova Intifada dal 2015, è un tipo diverso di Intifada che avviene a ondate. Come nel 2021 con l’enorme rivolta in difesa di Al-Aqsa. Oggi l’esercito israeliano non può entrare in nessun villaggio senza incontrare resistenza popolare ma quello di Israele è un enorme sistema di oppressione: dal 7 ottobre in Cisgiordania hanno arrestato quasi ottomila persone e ne hanno uccise 440, compresi 80 bambini. Non gli interessa della vita umana. I palestinesi sono pronti a partecipare a qualsiasi forma di resistenza. Uno dei problemi è che la stessa Autorità palestinese continua a impedire la creazione di una leadership unificata.

Che cosa dovrebbe accadere affinché il popolo palestinese possa trovare una rappresentanza e una leadership unita sia a livello politico sia territoriale?
MB Dobbiamo continuare a lottare per una leadership unita, dobbiamo imporla all’Autorità palestinese e abbiamo il diritto di chiedere libere elezioni democratiche, che è l’unico modo per la Palestina di esercitare un cambiamento politico e una riforma democratica. Se ci fossero state le elezioni nel 2021 non saremmo in questa situazione. L’incontro (delle fazioni palestinesi, ndr) a cui ho partecipato a Mosca ha stabilito che, in primo luogo, tutti i partiti devono essere ammessi nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) che è considerata la rappresentante del popolo palestinese. In secondo luogo, abbiamo stabilito gli obiettivi del nostro movimento congiunto: fermare la guerra a Gaza, garantire la fornitura di aiuti umanitari e prevenire la pulizia etnica. Purtroppo la decisione della presidenza di nominare un primo ministro senza consultare altri gruppi non è costruttiva e non si adatta allo spirito condiviso a Mosca. Continueremo a provarci e ci saranno altri incontri per attuare ciò che abbiamo concordato. A nostro avviso, come Iniziativa nazionale palestinese e partito in rapida crescita, l’obiettivo più importante è creare una leadership unificata. Il prossimo incontro sarà probabilmente dopo il Ramadan.

Abbiamo visto fotografie di persone sfollate, senza cibo, senza casa, osservare l’iftar (il pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadanndr) con il poco che hanno. Com’è la situazione a Gaza?
MB È molto, molto triste. Dirigo un’organizzazione medica che conta 32 équipe a Gaza e ci raccontano storie terribili, sono esausti. Una nostra clinica deve visitare 1.200 pazienti ogni giorno e i farmaci stanno finendo molto rapidamente. Non avrei mai pensato nella mia vita di medico che avrei sentito di colleghi che devono amputare o operare un bambino senza anestesia. È orribile: mille bambini hanno perso le braccia o le gambe, 20mila sono rimasti orfani e il numero continua a crescere. La distruzione è incredibile. È la guerra più barbara e selvaggia mai vista. Israele afferma che 30 bambini israeliani siano stati uccisi il 7 ottobre, anche se finora non ho visto i nomi, ma anche se fosse vero, come potrebbe questo giustificare l’uccisione di 13.500 bambini palestinesi? E i leader occidentali che affermano di sostenere la democrazia e i diritti umani, come possono dormire sapendo che Israele -che riconoscono, sostengono e al quale forniscono armi- continua a uccidere migliaia di bambini? Non capisco. O sono diventati totalmente insensibili e non provano sentimenti verso l’umanità, oppure non sono animati da buone intenzioni.

Un’inchiesta di Altreconomia ha rivelato che il governo italiano ha continuato a vendere armi a Israele anche dopo il 7 ottobre. Come considera questa scelta?
MB Sono sicuro che questa decisione è contro la volontà della maggior parte degli italiani, è un comportamento crudele. Il vostro governo deve capire che, se il caso di genocidio passerà davanti alla Corte internazionale di giustizia, sarà ritenuto responsabile di aver partecipato. È una cosa molto grave. Continuare a sostenere uno Stato, un esercito, che commette non solo genocidio ma anche punizioni collettive e pulizia etnica violando il diritto internazionale non solo è vergognoso ma assolutamente irresponsabile e avrà delle conseguenze.

di Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo

Altreconomia 16 febbraio 2024

La scrittrice palestinese Susan Abulhawa, autrice di “Ogni mattina a Jenin”, richiama ciascuno alle proprie responsabilità di fronte a una “disumanità da mozzare il fiato”, trasmessa in “live streaming”. Prendere posizione in una prospettiva decolonizzante è più che mai necessario. Per porre fine all’occupazione israeliana e alla carneficina.

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese-americana nata in Kuwait da genitori resi profughi dalla Guerra dei sei giorni. Da bambina ha vissuto in un orfanotrofio di Gerusalemme prima di trasferirsi negli Stati Uniti, dove vive tutt’oggi. Attivista per i diritti umani, è saggista, scrittrice, poetessa oltre che fondatrice di un’organizzazione non governativa, Playgrounds for Palestine, che costruisce parchi giochi in Palestina e nei campi profughi in Libano. È inoltre coinvolta nella campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (Bds) ed è relatrice per Al Awda, la coalizione per il diritto al ritorno. 

Il suo primo romanzo, “Ogni mattina a Jenin” (Feltrinelli, 2006), è stato tradotto in 32 lingue e ha venduto più di un milione di copie rendendo Abulhawa l’autrice palestinese più letta di sempre. Quel romanzo è riuscito a colmare il vuoto, lamentato da Edward Said, di un’opera letteraria capace di rappresentare -soprattutto su un pubblico occidentale- la tragedia sofferta da diverse generazioni di palestinesi a partire dal 1948, anno della costituzione di Israele, a oggi. Per Abulhawa il romanzo rappresenta un potente mezzo di decolonizzazione e su questa direttrice interpreta la motivazione di autori come James Baldwin e Tina Morrison sull’immaginario della tradizione letteraria araba di autori come Ghassan Kanafani e Elias Khoury. 

Da attivista, nel corso degli anni, sempre in chiave decolonizzante, ha esortato i palestinesi a ricambiare la solidarietà ricevuta sottraendosi a una dialettica esclusivamente euro-anglocentrica, ritenendo le lotte indigene e per la giustizia sociale più forti e autorevoli se condotte insieme, in quanto la liberazione si raggiunge in modo più completo quando si è impegnati in quella degli altri. L’impegno del Sudafrica, che ha intentato la causa per genocidio contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia al di fuori di alleanze meramente geopolitiche, sembra darle pienamente ragione. 

Abbiamo intervistato Susan Abulhawa dopo quattro mesi di guerra, mentre il governo israeliano di Benjamin Netanyahu respingeva la proposta avanzata da Hamas di 135 giorni di tregua con scambio reciproco di prigionieri in vista di un accordo per porre fine alla guerra. Hamas aveva anche chiesto che durante la tregua l’esercito israeliano si ritirasse completamente dalla Striscia di Gaza, proposta giudicata inaccettabile dall’esecutivo di Tel Aviv. Nello stesso giorno il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha lasciato il Medio Oriente spiegando alla stampa che Israele non ha “la licenza per disumanizzare gli altri”. Dal 7 ottobre le vittime palestinesi sono oltre 28.400 e 60mila i feriti.

In “Ogni mattina a Jenin” la biografia di Amal e della sua famiglia condensa tutta la storia contemporanea della Palestina: la guerra, l’esilio, l’appropriazione della terra, il divenire rifugiati. La strategia di Israele su Gaza dopo il 7 ottobre sembra riprodurre tutti questi eventi nella quiescenza delle potenze occidentali, alcune delle quali hanno anche revocato il sostegno all’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite che assiste i rifugiati palestinesi. Come giudica il comportamento di Israele e degli Stati occidentali, Italia compresa?
SA Non c’è nulla di complicato in questa formula. Fin dalla sua nascita, Israele è stato un’iniziativa coloniale genocida nata in Europa tra le élite di ebrei europei che volevano accaparrarsi una fetta della torta coloniale. Indipendentemente dalle loro ragioni, che si tratti di una risposta all’antisemitismo o di semplice avidità, resta il fatto che sono degli stranieri venuti in Palestina con l’intento di allontanare gli indigeni dalla terra e rubare loro tutto quello che avevano. Questi sono i fatti. La narrazione biblica romanticizzata è pura fantasia che non ha alcuna rilevanza nella realtà o nella testimonianza storica e forense. Siamo un popolo indigeno che lotta per liberarsi da questo stato di apartheid basato sulla supremazia ebraica fascista e la storia ci darà ragione. Ci rifiutiamo di andare incontro al destino di altri popoli indigeni del mondo che sono stati vittime di genocidio, spinti ai margini delle loro terre d’origine, delle loro storie e del loro patrimonio. Gli Stati Uniti e gli altri alleati di questo Stato sionista fascista sono stati smascherati per quello che sono: dei mostri imperialisti. Abbiamo sempre saputo che le loro infinite guerre contro l’“altro” non avevano nulla a che vedere con gli alti ideali della democrazia e dei diritti umani. Ma ora l’imperatore è nudo, la loro malevolenza è chiara, affinché tutto il mondo possa vederla sullo sfondo di un genocidio trasmesso in live streaming.

“Siamo un popolo indigeno che lotta per liberarsi da questo stato di apartheid basato sulla supremazia ebraica fascista e la storia ci darà ragione. Ci rifiutiamo di andare incontro al destino di altri popoli indigeni del mondo che sono stati vittime di genocidio, spinti ai margini delle loro terre d’origine, delle loro storie e del loro patrimonio”

La Corte internazionale di giustizia dell’Aia ha ordinato a Israele di adottare tutte le misure possibili per prevenire atti di genocidio, di prevenire e punire l’incitamento diretto e pubblico al genocidio e di adottare misure immediate ed efficaci per garantire i servizi di base e gli aiuti umanitari ai civili a Gaza, ma non è riuscita a dichiarare Israele colpevole di genocidio né a ordinare un cessate il fuoco immediato, come invece aveva chiesto il Sudafrica. Qual è la sua opinione sulla decisione?
SA Il senso della decisione della Corte internazionale di giustizia non è mai stato quello di dichiarare Israele colpevole o meno. Questo pronunciamento doveva essere una misura provvisoria per valutare se vi fosse fondatezza nella causa avanzata dal Sudafrica affinché il processo potesse procedere e in secondo luogo per ordinare misure immediate per proteggere la popolazione palestinese. La decisione della Corte è stata positiva sotto entrambi i punti di vista. I giudici hanno stabilito che le prove indicano un genocidio e che il processo contro Israele procederà. Ci vorranno anni per arrivare a un giudizio e si sapeva fin dall’inizio. Nel frattempo, la Corte ha di fatto ordinato a Israele di fermare i bombardamenti indiscriminati e di smettere di utilizzare il cibo e l’acqua come arma contro i civili. Quindi, questa è stata una vittoria a tutti gli effetti per i palestinesi e per l’intero mondo colonizzato e oppresso.

Oltre a prendere deliberatamente di mira gli ospedali di Gaza, abbiamo assistito a raid ed esecuzioni sommarie anche nell’ospedale di Jenin, senza processo o sentenza alcuna…
SA Questa non è una novità. È solo che i media non hanno mai considerato l’uccisione dei palestinesi degna di nota, a meno che questi non siano riportati come numeri quando sui “giornali” mostrano in maniera puntuale la morte degli israeliani.

“Tutti devono prendere posizione. Non esiste una via di mezzo. Chi tace è complice di genocidio”

Rispetto a vent’anni fa, gli autori palestinesi vengono finalmente tradotti e distribuiti dalle grandi case editrici, anche qui in Italia. Se gli scrittori hanno un palcoscenico e una legittimità internazionale, non si può dire lo stesso dei leader politici o della solidarietà con i movimenti politici. Che cosa deve accadere nella società palestinese e nei movimenti di sostegno affinché tutti possano prendere parte con successo a un processo di decolonizzazione e liberazione?
SA Questo è un momento diverso da qualsiasi altro nella storia umana. Una disumanità da mozzare il fiato è sotto gli occhi di tutti, affinché tutti possano vederla e ascoltarla, e ha portato a galla altri orrori nella consapevolezza popolare, inclusa la tragica situazione di luoghi come Congo, Sudan, Yemen, Iraq, tra gli altri, dove le multinazionali e gli eserciti occidentali stanno scatenando violenze e devastazione per rubare le risorse di altre persone. Tutti devono prendere posizione. Non esiste una via di mezzo. Chi tace è complice di genocidio.

di Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo


Intervista a Suad Amiry, architetta e scrittrice di famosi romanzi come “Sharon e mia suocera”, “Damasco” e “Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea”. Guarda con rabbia ai fatti di Gaza. “La cosa più importante -dice- è togliere a Israele l’impunità concessagli dall’Occidente: nessuno dovrebbe essere al di sopra del diritto”

Da più di cento giorni la Striscia di Gaza è sottoposta a incessanti bombardamenti da parte dell’esercito israeliano. Oltre 25mila vittime, il 40% bambini, un terzo donne, molti gli anziani. Un milione e settecentomila persone, l’80% dei gazawi, ha dovuto lasciare casa e vaga in cerca di un riparo dalle bombe in un fazzoletto di terra che va progressivamente ridimensionandosi. La sanità è al collasso con 32 dei 36 ospedali fuori uso: 180 donne che partoriscono ogni giorno senza anestesia né assistenza, numerosi gli interventi e le amputazioni senza farmaci di supporto nei pochi ospedali rimasti, che versano in condizioni disumane. Nel perdurare della crisi umanitaria, con una popolazione tagliata fuori dai rifornimenti essenziali, l’unico tentativo di far cessare il fuoco lo ha compiuto la Repubblica del Sudafrica, intentando una causa di genocidio contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia. Abbiamo chiesto a Suad Amiry, architetta e scrittrice palestinese di famosi romanzi come “Sharon e mia suocera”, “Damasco” (Feltrinelli) e “Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea” (Mondadori) che cosa ne pensa della situazione attuale.

Amiry, per i palestinesi la causa di genocidio rappresenta una forma di riconoscimento di un torto cominciato nel 1948. Riconoscimento che non proviene da una democrazia liberale occidentale ma da una giovane democrazia che con Nelson Mandela ha raggiunto la fine dell’apartheid nel 1994. Che cosa significa questo per lei?
SA
 Grazie a dio la causa di genocidio non è stata portata alla Corte internazionale di giustizia da una democrazia occidentale: l’Occidente è complice dei crimini di guerra commessi a Gaza. Chi meglio del Sudafrica conosce l’orrore del razzismo, dell’apartheid, della violenza e della distruzione? Chi se non il Sudafrica simboleggia la necessità di porre fine alla supremazia bianca e all’egemonia occidentale? Chi se non Mandela simboleggia la dignità umana e il desiderio di uguaglianza, libertà e giustizia. Chi altri avrebbe potuto difendere con tanta dignità i palestinesi contro lo Stato di apartheid israeliano e chiamarlo con il suo nome? La lotta sudafricana per smantellare uno dei sistemi di apartheid più radicati è sempre stata fonte di ispirazione per i palestinesi. Semmai, il genocidio a cui assistiamo oggi a Gaza è solo un promemoria di dove si posiziona l’Occidente rispetto a Israele e ai suoi crimini.
Non c’è da stupirsi, perché la creazione stessa dello Stato di Israele (che ha portato all’espulsione del popolo palestinese nel 1948) è stata ed è tuttora un progetto coloniale occidentale fallito. Chiedo ai Paesi occidentali: che cosa vi abbiamo fatto noi palestinesi per meritare che ci voltiate le spalle? Che cosa abbiamo fatto al governo italiano, a quello francese, a quello tedesco o a quello britannico per meritare questo? Vi è stato solo chiesto di firmare un appello per il cessate il fuoco per salvare migliaia di civili innocenti e non siete ancora stati in grado di farlo. Vergognatevi. La guerra a Gaza non solo ha messo in luce l’aspetto criminale dell’occupazione israeliana che dura da oltre 76 anni, ma anche l’ipocrisia del mondo occidentale.

Nella sua letteratura la narrazione incrocia diversi periodi storici della vicenda palestinese; in alcuni casi il confronto generazionale avviene nella medesima biografia eppure per molti sembra che la tragedia delle 1.200 vittime israeliane, così come delle 25mila vittime palestinesi sia cominciata il 7 ottobre del 2023. Quale causa legale, quale azione morale e quale iniziativa politica pensa debba essere intentata per rendere giustizia ai palestinesi?
SA 
La cosa più importante è togliere a Israele l’impunità concessagli dall’Occidente: nessuno dovrebbe essere al di sopra del diritto internazionale. I Paesi occidentali devono mettere fine ai loro doppi standard nei confronti di Palestina e Israele. Finché Israele godrà di quest’impunità continuerà la sua occupazione. Come nel caso del Sudafrica, Israele deve essere boicottato e sanzionato dalla comunità internazionale; se non fosse stato per le sanzioni contro i “bianchi” il Sudafrica non sarebbe stato liberato. Gli Stati Uniti e l’Europa dovrebbero smettere di sostenere a parole la soluzione dei due Stati, questa adesione formale sta dando agli israeliani il via libera per continuare ad accaparrarsi più terre e costruire insediamenti. Come successo con la creazione di Israele nel 1947, l’Onu dovrebbe dichiarare uno Stato palestinese sui confini del 1967 e costringere gli israeliani a ritirarsi. In mancanza di ciò il ciclo di violenza continuerà finché persisteranno l’occupazione, l’assedio di Gaza e la costruzione di insediamenti ebraici. State certi che il desiderio di libertà, uguaglianza e indipendenza non scomparirà mai.
Nessuno accetta che gli vengano tolti la casa, i campi, i villaggi e le città con qualsiasi pretesto ideologico, politico o religioso. I palestinesi vogliono porre fine all’ingiustizia che si è abbattuta su di loro dal giorno in cui Israele è stato creato sulla Palestina. Nessuno vuole vivere come cittadino di seconda o terza classe in un sistema di apartheid con supremazia ebraica, dove gli ebrei hanno più diritti dei palestinesi. È ovvio che i vari governi israeliani che si sono succeduti hanno scelto di rubare le terre palestinesi piuttosto che fare la pace. È ovvio se si sceglie di costruire insediamenti ebraici e di trasferire 700mila coloni in Cisgiordania e di dare loro terre palestinesi gratuitamente. I coloni israeliani utilizzano il 90% dell’acqua della Cisgiordania, lasciandone il 10% a tre milioni di palestinesi. La guerra contro Gaza ha dimostrato la crudeltà del governo israeliano e i suoi atti criminali contro i civili: la sicurezza dei civili, il cibo, l’acqua, l’elettricità e le medicine vengono usati come armi contro la popolazione di Gaza. Lo sfollamento di due milioni di palestinesi dalle loro case è un altro crimine di guerra collettivo. Abbiamo bisogno di una soluzione politica, che si tratti di uno Stato palestinese indipendente o della fine dell’apartheid e la creazione di uno Stato con uguali diritti per tutti. Chiamatela Repubblica delle banane o Repubblica dell’anguria, non ha importanza.

Lei ha creduto e preso parte al processo di pace e agli Accordi di Oslo, per tre anni ha partecipato alle delegazioni a Washington. Perché quella proposta di pace non ha avuto seguito?
SA 
Come il tempo ha dimostrato, nessuno dei governi israeliani ha mai voluto riconoscere il diritto palestinese all’autodeterminazione. In altre parole Israele non è mai stata disposta a pagare il prezzo della pace, la restituzione delle terre che occupa dal 1967: Cisgiordania, Striscia di Gaza e la Gerusalemme araba. Nessuno dei governi israeliani che ha negoziato con i palestinesi per 30 anni (1991-2021) ha mai smesso di costruire insediamenti sulle terre occupate. Il che significa che Israele non ha mai seriamente voluto raggiungere una soluzione pacifica. Dopo Camp David, Israele ha previsto l’autogoverno del popolo ma non della terra, ciò che Netanyahu suggerisce anche oggi.
I palestinesi possono amministrare i propri affari civici, i servizi, ma nessun controllo sulla terra, sull’aria, sulle risorse e sulla sicurezza. Netanyahu continua a dire “Non ci sarà nessuno Stato palestinese. La terra tra il fiume e il mare sarà sotto il dominio israeliano”. Noi palestinesi e il mondo dobbiamo affrontare questa dura realtà e agire di conseguenza: senza la pressione della comunità mondiale non ci sarà mai uno Stato palestinese indipendente. E finché gli Stati Uniti e l’Europa considereranno Israele al di sopra della legge, assisteremo solo a ulteriori violenze.

di Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo

Altreconomia . 17 ottobre 2023


I riflessi sulla società palestinese degli attacchi di Hamas e dei bombardamenti israeliani, il destino della coesistenza e il limite tra volontà di vivere e disponibilità a morire. Intervista a Samah Jabr, psichiatra araba di Gerusalemme, scrittrice e presidente dell’Unità di salute mentale presso il ministero della Salute palestinese.

Samah Jabr è una psichiatra araba di Gerusalemme, scrittrice e presidente dell’Unità di salute mentale presso il ministero della Salute palestinese. Attingendo alla sua esperienza clinica e ispirata dal discorso di Frantz Fanon, nei suoi scritti restituisce uno sguardo lucido e disincantato sull’occupazione israeliana e sulla resistenza palestinese. Il suo libro “Dietro i fronti” è stato tradotto in inglese, francese, spagnolo e italiano, ma è in “Sumud” che definisce e riconosce al proprio popolo una capacità di contrastare la sopraffazione, un qualcosa di enormemente più grande della sola resilienza, che non si limita ad uno stato mentale di adattamento. Sono l’esodo, la negazione e il tentato sradicamento a generare pratiche positive di affermazione e sopravvivenza.

L’abbiamo intervistata a cavallo tra gli attacchi di Hamas e la controffensiva dell’esercito israeliano a Gaza, nel tentativo di andare oltre la drammatica cronaca di questi giorni, senza esserne sopraffatti. 

Jabr, quali sentimenti ha scatenato nella società palestinese l’offensiva di Hamas dalla Striscia di Gaza di inizio ottobre.
SJ Non posso fornire informazioni precise sui sentimenti del popolo palestinese ma credo che la maggior parte non sarebbe d’accordo con la parola “offensiva di Hamas”. I palestinesi definiscono ciò che è accaduto il 7 ottobre “resistenza”, che è considerata un diritto umano garantito dal diritto internazionale e un dovere morale per le persone di coscienza che desiderano la libertà. Persone che si sono assunte la responsabilità di rompere le mura della “prigione a cielo aperto” chiamata Striscia di Gaza dopo 16 anni di blocco totale e di attuare per qualche ora il diritto al ritorno dei palestinesi garantito dalla Risoluzione 194 delle Nazioni Unite ma negato da Israele. Osservando i social media palestinesi, si nota ammirazione per il coraggio della resistenza e disprezzo per i tentativi della politica e dei media israeliani e occidentali di isolare questo evento dai 75 anni di storia e occupazione militare israeliana. Come anche definire i palestinesi “terroristi” e “animali” (come affermato dal ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant), o paragonare l’evento all’11 settembre e creare false analogie, come quando si paragona la resistenza palestinese con l’Isis. Le perdite umane, da entrambe le parti, sono assolutamente deplorevoli ma, sia quando i palestinesi agiscono in modo pacifico (come nella Marcia del ritorno) sia quando ricorrono alla violenza, vengono uccisi e condannati. In generale, ritengo che tali eventi evochino diverse e complesse emozioni tra i palestinesi e nella società palestinese. Queste emozioni possono includere paura, rabbia, frustrazione, dolore e un profondo senso di ingiustizia, ma anche speranza e orgoglio. I palestinesi hanno vissuto decenni di traumi e sofferenze, le quali contribuiscono all’intensità delle loro reazioni emotive. Le opinioni su Hamas sono diverse: molti la considerano un’organizzazione di liberazione e sostengono gli sforzi di resistenza del gruppo, altri si oppongono alle sue tattiche e temono la vendetta israeliana e le intenzioni genocide. È importante ricordare che i palestinesi hanno prospettive politiche e ideologiche diverse, che possono variare significativamente in base a fattori come la geografia, le differenze generazionali e le esperienze individuali. L’opinione pubblica può inoltre mutare in risposta all’evolvere delle dinamiche della lotta e degli sviluppi internazionali. 

Come si riverbera tutto ciò sulla vita dei cittadini palestinesi e sulla coesistenza precaria tra arabi palestinesi, arabi israeliani ed ebrei israeliani in luoghi di convivenza come Gerusalemme?
SJ Gli eventi violenti si riflettono profondamente nella vita quotidiana dei cittadini palestinesi, colpendoli su vari livelli. Questo impatto non si limita agli abitanti di Gaza e della Cisgiordania, si estende alle aree con popolazioni miste, come i gerosolimitani e i palestinesi con cittadinanza israeliana. Gerusalemme è al centro di tutto questo ed è stata un punto focale delle tensioni, a causa dei siti religiosi e dell’accesso alla Città Vecchia. In ogni caso, la coesistenza è un mito che non regge alla minima tensione politica. Per gli israeliani, i palestinesi sono tutti schiavi. Non c’è coesistenza possibile tra occupante e occupato, tra il popolo eletto da dio e gli indigeni disumanizzati, demonizzati o invisibili della Palestina occupata: il popolo eletto si sente in diritto di appropriarsi della loro terra. Nel migliore dei casi, i palestinesi sono controllati da posti di blocco, chiusure di strade e operazioni militari. Nei momenti di maggiore tensione e violenza, vendette e ritorsioni si diffondono a macchia d’olio. Nel mio quartiere a Gerusalemme, Beit Hanina, i giovani vengono brutalmente picchiati se sorpresi a guardare il telegiornale oppure ad ascoltare le canzoni nazionali. I nostri colleghi e le nostre controparti israeliane, di solito amichevoli, spesso ci provocano nelle discussioni per estorcerci una condanna nei confronti della resistenza; se ci asteniamo, questo ci sottopone a etichettature e ritorsioni. Alcuni professionisti hanno anche perso il lavoro perché bollati come “simpatizzanti di Hamas”. 

Che cosa rappresenta la Striscia di Gaza per i palestinesi della Cisgiordania e per i profughi sparsi nel mondo e qual è il limite tra volontà di vivere e disponibilità a morire?
SJ Gaza ha un forte significato simbolico per i palestinesi, gli arabi e le altre nazioni che lottano contro l’oppressione e la colonizzazione: è la lotta di Davide contro Golia. Ogni due anni Israele dichiara una guerra e demolisce massicciamente edifici, scuole e ospedali per annientare la resistenza, che ogni volta ne esce più forte e determinata. In arabo Gaza significa “punta” e, metaforicamente, è la punta nella laringe dell’occupazione. Gaza è anche il simbolo del sumoud palestinese, della fermezza, della resilienza e della determinazione di fronte alle avversità. Gli abitanti di Gaza sono percepiti come tenaci nel perseguire il loro obiettivo di autodeterminazione e giustizia. I palestinesi della Cisgiordania e della diaspora nutrono spesso un profondo senso di solidarietà nei confronti dei palestinesi di Gaza, li vedono come difensori in prima linea della causa. La situazione della Striscia rafforza il senso di unità e l’impegno condiviso per il riconoscimento dello Stato palestinese e del diritto al ritorno dei rifugiati. Per quanto riguarda la volontà di vivere e la disponibilità a morire, è essenziale affrontare questo argomento con sensibilità. I palestinesi, come le persone di qualsiasi altra comunità, apprezzano la vita e lottano per un futuro migliore per sé stessi e per le loro famiglie. Il concetto di “disponibilità a morire” non deve essere ridotto alla volontà di compiere atti di violenza, ma deve essere inteso in un contesto più ampio: come lotta per la libertà e per una vita dignitosa. Molti palestinesi si sono impegnati nella resistenza nonviolenta quali le proteste pacifiche, l’advocacy o la disobbedienza civile nel tentativo di portare avanti la loro causa. Questo riflette un impegno a cambiare senza ricorrere alla forza, eppure tutti questi tentativi si sono scontrati con la violenza israeliana: quanti manifestanti sono morti durante la Marcia del ritorno? L’obiettivo finale dei palestinesi è quello di garantire un futuro migliore a sé stessi e alle generazioni a venire caratterizzato da pace, libertà e dignità. La volontà di compiere sacrifici è spesso guidata dal desiderio di raggiungere quest’obiettivo. 


di Alessandro Di Rienzo e Noha Tofeile –

Pagine Esteri – 14 maggio 2021 – Ibrahim Nasrallah è nato nel 1954 da genitori palestinesi che furono sradicati dalla loro terra nel 1948. Autore di quattordici raccolte di poesie e ventidue romanzi la sua serie epica “The Palestinian Comedy” copre 250 anni di storia palestinese moderna. Il romanzo Febbre (in Italia pubblicato con Edizioni Lavoro) è stato elencato da The Guardian come uno dei dieci romanzi più importanti sul mondo arabo. Ha ricevuto il Premio internazionale 2018 per la narrativa araba per il romanzo “La seconda guerra del cane”. Nel 2020 è diventato il primo scrittore arabo a ricevere per la seconda volta il “Premio Katara” con “Un carro armato sotto l’albero di Natale”. In Italia è tradotto anche con il romanzo “Dentro la notte” (Illiso edizioni). Consideriamo Ibrahim Nasrallah l’autore palestinese vivente con la maggior tensione verso l’universale in quanto la sua opera è rivolta ad una unica platea, araba o occidentale che sia. Le domande sono state poste un attimo prima che la protesta di Gerusalemme fosse accompagnata dai razzi su Tel Aviv e missili su Gaza, le risposte sono arrivate un attimo dopo.

Ibrahim Nasrallah, il presidio delle case di Sheikh Jarrah, la rivendicazione del diritto alla socialità fuori la Porta di Damasco, la difesa delle Spianata delle Moschee. Con quali parole racconterebbe l’ultimo mese, il mese del Ramadan 2021, a Gerusalemme?

Tutte le parole convergono e si combinano in una sola: libertà. Noi palestinesi siamo le ultime persone al mondo a soffrire l’occupazione e vogliamo liberarci, vivere come tutti gli esseri umani con dignità e sicurezza e non dover aver paura per i nostri figli. Vogliamo essere rassicurati che il giorno dopo verrà, e che verrà senza proiettili. Qui le persone rivendicano il diritto alla loro patria sotto sequestro e desiderano che i crimini di guerra non continuino senza responsabilità. Le persone manifestano e si ribellano non perché amano la morte, ma perché amano la vita e vogliono che la vita sia l’eredità da lasciare a figli e nipoti.

Come viene vissuto dai palestinesi della diaspora la rivendicazione ad esistere dei propri connazionali a Gerusalemme?

I palestinesi a Gerusalemme non solo difendono se stessi e la loro città, ma soprattutto i valori di giustizia che i palestinesi della diaspora hanno difeso, il popolo del Sud Africa ha difeso, l’Europa ha difeso nella seconda guerra mondiale e che le persone di coscienza ovunque difendono.

Nella mia prima intervista alla stampa, quando ero giovane, 41 anni fa, ho detto: siamo con la Palestina non perché siamo palestinesi o arabi, siamo con essa perché è una prova quotidiana della coscienza del mondo. Questo è ciò che stanno facendo i palestinesi della diaspora e che stanno facendo i sostenitori della giustizia e della dignità umana in ogni dove. Alzano la voce contro i crimini commessi dall’occupazione. Solo la scorsa settimana gli israeliani hanno demolito e distrutto centinaia di case palestinesi, uccidendo più di 60 persone e ferendone altre 1.200.

In “Dentro la notte” battaglie, massacri e espropri si confondono in un onirico flusso di coscienza. Cosa ancora deve accadere nella notte dei palestinesi prima che arrivi l’alba?

Oggi e sempre il palestinese non ha mai sognato niente di diverso dall’essere al sicuro e rassicurato quando mette la testa sul suo cuscino per dormire. Siamo stanchi dei massacri e degli incubi. Alcuni di noi sono nati, vissuti e sono morti assediati da questi incubi e da questa uccisione. Vogliamo sognare cose belle, di un futuro, di bambini che crescono normalmente, sogniamo di crescere i nostri figli senza timori e di piantare i nostri alberi senza preoccupazioni. Persino gli alberi non sfuggono alle forze israeliane, milioni di alberi sono stati tagliati o bruciati. È quello che hanno fatto nel villaggio di Burin, vicino a Nablus, una settimana fa. I coloni hanno bruciato le fattorie e i frutteti del villaggio, come gli ulivi e il resto degli alberi da frutta. L’occupazione qui considera anche gli alberi come suoi nemici, quindi li sradica e li brucia.

La stampa internazionale ha ignorato le cene, le riprese con gli smartphone che rivendicavano il diritto a esistere a Gerusalemme. Non ignoreranno e condanneranno altre forme di resistenza. Siamo complici con la negazione ad esistere dei palestinesi?

Da settantatre anni, il palestinese ha chiesto alle persone di tutto il mondo di capire la sua causa e di vedere lo stesso palestinese come un rifugiato fuori dalla sua terra natia e prigioniero all’interno della patria, come un oppresso contro il quale vengono praticate tutte le forme di omicidio, pulizia etnica, tutte le forme di razzismo. Non sono solo io a dirlo, lo dicono anche tutte le organizzazioni internazionali: Amnesty International, la Corte internazionale di giustizia, le risoluzioni delle Nazioni Unite e le stesse Nazioni Unite.

Ma c’è chi chiude gli occhi, c’è chi non vuole riconoscere la tragedia di questo popolo che da più di cento anni difende la propria patria. I crimini israeliani sono ovunque e a Gerusalemme ci sono crimini gravi contro la Chiesa del Santo Sepolcro e contro la Moschea di Al-Aqsa, contro cristiani e musulmani. Ho scritto un romanzo intitolato “Un carro armato sotto l’albero di Natale” su ciò che hanno fatto gli israeliani contro i cristiani a Beit Sahour e a Betlemme. Hanno ucciso persone in queste due città, confiscato i loro soldi nelle banche, le loro fedi nuziali e gioielli in oro delle donne, hanno ucciso gli animali che danno il latte necessario ai bambini palestinesi.

Nonostante tutto questo alcuni insistono sul fatto di non vedere questi crimini, il palestinese è stanco di questo, stanco della cecità di coscienza ampiamente praticata dai media e dai politici occidentali, quindi i palestinesi si ribellano ancora e ancora per vivere la libertà che le persone vivono ovunque.

Due anni fa chiesi a Marwan Jubeh, libraio dell’unica libreria di Ramallah Al-Jubeh, quali fossero gli autori palestinesi viventi più letti e mi fece solo il suo nome. Letteratura e poesia, la sua, sembrano essere un collante fondativo della nazionalità palestinese. Si assolve a questo ruolo volontariamente o involontariamente?

Scrivere per me è un progetto di vita, anzi, un progetto di esistenza. Quando scrivo, e quando scrivono i palestinesi vogliamo ribadire che esistiamo, che non siamo morti, che non possiamo morire. Ma la scrittura è anche un progetto estetico, vogliamo contribuire allo sviluppo anche della letteratura, intediamo offrire al mondo qualcosa di bello, così come il mondo ci regala qualcosa di bello, così come l’Italia ha offerto Dino Buzzati, Luigi Pirandello e Alessandro Barrico. Vogliamo presentare qualcosa di bello al popolo, e quando le persone leggono i nostri lavori ovunque nel mondo vogliamo che queste persone li apprezzino e li amino, non solo perché ci sostengono, ma perché sono buoni e bei libri.

Sono felice che i miei libri siano letti ampiamente in Palestina e che il gruppo più numeroso di miei lettori sia costituito da giovani in Palestina come all’estero, sono lieto di essere classificato come uno dei più influenti scrittori arabi. Sento che il mio fedele lavoro di scrittura, che dura da più di 45 anni, non è stato vano e che i miei libri influenzano e donano alle persone speranza e amore per la vita.


per AgoraVox apparso il 13 agosto 2019

Dalla finestra sull’ingresso di Bab al Sisila alla Spianata delle Moschee entrano rumori assordanti. Si tratta di una delle undici porte che consentono l’ingresso alla Spianata, una sola di queste consente di entrare ai non musulmani. 

Di questo luogo come di altri siti sacri della città vecchia di Gerusalemme conoscevo regole che credevo consolidate: la Spianata ai musulmani e il Muro del Pianto agli ebrei, con possibilità dei turisti e di donne e uomini di altre confessioni di visitare entrambi i luoghi in orari e con modalità stabiliti dalle autorità e dagli enti deputati ad amministrarli. Ma dai rumori che entrano dalla finestra capisco che la regola non è poi così consolidata, un check point della polizia militare israeliana limita l’ingresso ai non musulmani e ferma continuamente gruppi di ultrareligiosi nazionalisti e di ortodossi che sostano a pregare, o a cantare, contemplando quello che doveva essere il Tempio distrutto prima da Nabucodonosor nel 586 a.C. e poi dalle truppe di Tito nel 70. d.C. Di tanto in tanto alla polizia tocca fronteggiare il gruppi di ultranazionalisti impegnati in atteggiamenti provocatori per liberare l’ingresso della porta; capita anche che gruppi di turisti la visitino seguendo una guida che illustra su un cartello gli ingressi a quello che doveva essere fino a duemila anni fa il Tempio.

Avverto che la pressione sulla Spianata da parte di Israele è ormai divenuta fortissima, che la passeggiata di Sharon del 28 settembre del 2000, la quale scatenò la seconda intifada, rappresenta solo l’inizio di un tabù che lo si voleva rotto, che la regola che consideravo consolidata, regola questa legittimata da uno status quo sancito dalla Giordania con Israele, è di fatto mutevole, dinamico, in continua trasformazione in favore degli israeliani e delle forze occupanti, come ogni trasformazione che qui avviene dal 1948 a oggi. Fino a ieri l’ingresso alla Spianata era consentito ai non musulmani, quindi anche agli ebrei, in un orario concordato tranne nei giorni delle ricorrenze riconosciute dal calendario islamico. Altre fedi confessionali è vietato pregare sulla Spianata.

Arriva poi il giorno degli scontri. Quest’anno la Festa del Sacrificio dei musulmani coincide con il giorno del digiuno ebraico per la ricorrenza della distruzione del Tempio. Le tensioni si concentrano sulla Spianata, terzo luogo sacro per importanza dell’Islam, che ospita la moschea di al-Aqsa. Di mattina presto migliaia e migliaia di musulmani accorrono sulla Spianata per la preghiera che da inizio alla festività, sulla porta sotto la finestra donne, uomini e bambini entrano ordinati tra i canti degli ebrei che presidiano la porta. Tutto fila liscio fino alla fine della preghiera, poi gli scontri. A detta dei palestinesi immotivati per sgomberare la Spianata, a detta degli israeliani motivati da un canto presuntamente nazionalista salmodiato dai palestinesi: “per la nostra anima, per il nostro sangue, ci sacrifichiamo a te al-Aqsa”. Liberata la Spianata dai musulmani entrano 1729 ultranazionalisti religiosi israeliani, quella che allora fu la passeggiata di Sharon 19 anni dopo viene moltiplicata per 1729. 

Haaretz, la stampa israeliana progressista racconta l’accaduto: come la vittoria degli opposti estremismi. Potrebbe essere vero se la premessa a questa interpretazione godesse di un principio egalitario, così purtroppo non è. A spiegare bene le cose è un attentissimo osservatore delle trasformazioni di Gerusalemme, si chiama Daniel Seidemann e dal suo account twitter in sei cinguettii spiega: 

Per coloro che sono interessati, e in particolare per quelli che si stanno dimostrando eloquenti sulla libertà di culto sul Monte del Tempio, è necessario un confronto. Diamo un’occhiata al Muro del Pianto: I musulmani possono entrare/attraversare la piazza del Muro del Pianto? Sì, a meno che tu non sia un palestinese. I musulmani provenienti dalla Turchia e dall’Indonesia possono entrare sul piazzale antistante, soggetto al consueto controllo di sicurezza. I palestinesi non possono entrare – anche se controllati dalla sicurezza. Ci sono eccezioni al divieto generale sui palestinesi per l’ingresso all’area del Muro del Pianto? Sì. I palestinesi possono entrare e attraversare il la piazza del Muro del Pianto se ottengono il “permesso pedonale”. Chi rilascia il permesso? Il comandante della polizia della Muro Occidenale Heritage Foundation. Ai palestinesi sono concessi “permessi pedonali”? Sì, in piccola parte, per lo più gli anziani o gli infermi hanno potuto entrare nel Monte del Tempio attraverso la Porta dei Mughrabi . Praticamente tutti gli altri palestinesi sono respinti all’ingresso e non hanno diritto a permessi.

È una questione di sicurezza? No. Nessuna quantità di controlli di sicurezza o controlli è sufficiente per consentire a un palestinese di attraversare la piazza antistante al Muro del Pianto. Non mi credi? Ecco una copia del modulo di domanda per un “permesso pedonale”. : Libertà religiosa chiunque? 

In sei cinguettii Daniel Seidemann racconta la disparità, anche in tema confessionale, di diritto di cittadinanza tra israeliani e palestinesi a Gerusalemme. Una apartheid che oggi si traduce anche in agibilità confessionale, agli ebrei israeliani è concesso camminare sulla Spianata delle Moschee agli arabi palestinesi non è concesso avvicinarsi al Muro del Pianto. Solo ai gatti, indisturbati e inosservati alle molteplici frontiere, è concesso di elemosinare attenzioni sia al Muro del Pianto che alla Spianata delle Moschee. 

Considerazioni a margine:

– Martedì 17 settembre 2019 Israele va al voto per il rinnovo della Knesset e del governo. É facilmente deducibile che l’accaduto dell’11 agosto sulla Spianata delle Moschee risenta anche del clima elettorale e del costante ammiccamento di Benjamin Netanyahu ai coloni e ultrareligiosi.

– Tra i 1729 ebrei entrati nella Spianata della Moschee vi era anche l’ex parlamentare del Likud Yehuda Glick che da anni lavora alla ricostruzione del Tempio ebraico sulla Spianata delle Moschee. Alla domanda della giornalista francese Marine Vlahovic “se l’intrusione sulla Spianata non fosse una violazione dello status quo” Glick ha risposto che “non gli risulta che lo status quo sia una religione”.

– Ho il sospetto che la nenia cantata dagli ultrareligiosi israeliani non sia meno nazionalista del canto palestinese, una comparazione tra i canti e la rispettiva agibilità di essere cantati sarebbe un tema di approfondimento a mio avviso interessante.

– Lo svuotamento progressivo dalla città vecchia di Gersulamme degli arabi palestinesi è riscontrabile anche al distratto turista, come lo sono io, che frequenta questo luogo negli anni sporadicamente. Anche questo è un tema che andrebbe approfondito, restano impresse sul mio timpano le parole di un giovane fotografo palestinese: “per quanto riguarda Gerusalemme negli anni i giordani si sono interessati ad amministrare i suoli, gli israeliani invece ad amministrare le persone. Sul lungo periodo hanno vinto gli israeliani”.

– Per come l’ho conosciuto l’ebraismo, l’appartenenza a questa comunità confessionale, è fortemente caratterizzato dalla diaspora e dalla negazione del Tempio. Come se l’ebraismo risiedesse nella costante elaborazione della distruzione del Tempio. Avverto quasi una mutazione genetica, una trasformazione radicale di tale religione già nella sola praticabilità della Spianata, nel suolo cioè dove un tempo sorgeva il Tempio. Di questo argomento ho solo una conoscenza superficiale che non mi consente di avere una idea chiara e di poter dire alcunché, avverto solo una immanente trasformazione della natura e dell’essere ebreo.