Articoli

di Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo

Altreconomia . 17 ottobre 2023


I riflessi sulla società palestinese degli attacchi di Hamas e dei bombardamenti israeliani, il destino della coesistenza e il limite tra volontà di vivere e disponibilità a morire. Intervista a Samah Jabr, psichiatra araba di Gerusalemme, scrittrice e presidente dell’Unità di salute mentale presso il ministero della Salute palestinese.

Samah Jabr è una psichiatra araba di Gerusalemme, scrittrice e presidente dell’Unità di salute mentale presso il ministero della Salute palestinese. Attingendo alla sua esperienza clinica e ispirata dal discorso di Frantz Fanon, nei suoi scritti restituisce uno sguardo lucido e disincantato sull’occupazione israeliana e sulla resistenza palestinese. Il suo libro “Dietro i fronti” è stato tradotto in inglese, francese, spagnolo e italiano, ma è in “Sumud” che definisce e riconosce al proprio popolo una capacità di contrastare la sopraffazione, un qualcosa di enormemente più grande della sola resilienza, che non si limita ad uno stato mentale di adattamento. Sono l’esodo, la negazione e il tentato sradicamento a generare pratiche positive di affermazione e sopravvivenza.

L’abbiamo intervistata a cavallo tra gli attacchi di Hamas e la controffensiva dell’esercito israeliano a Gaza, nel tentativo di andare oltre la drammatica cronaca di questi giorni, senza esserne sopraffatti. 

Jabr, quali sentimenti ha scatenato nella società palestinese l’offensiva di Hamas dalla Striscia di Gaza di inizio ottobre.
SJ Non posso fornire informazioni precise sui sentimenti del popolo palestinese ma credo che la maggior parte non sarebbe d’accordo con la parola “offensiva di Hamas”. I palestinesi definiscono ciò che è accaduto il 7 ottobre “resistenza”, che è considerata un diritto umano garantito dal diritto internazionale e un dovere morale per le persone di coscienza che desiderano la libertà. Persone che si sono assunte la responsabilità di rompere le mura della “prigione a cielo aperto” chiamata Striscia di Gaza dopo 16 anni di blocco totale e di attuare per qualche ora il diritto al ritorno dei palestinesi garantito dalla Risoluzione 194 delle Nazioni Unite ma negato da Israele. Osservando i social media palestinesi, si nota ammirazione per il coraggio della resistenza e disprezzo per i tentativi della politica e dei media israeliani e occidentali di isolare questo evento dai 75 anni di storia e occupazione militare israeliana. Come anche definire i palestinesi “terroristi” e “animali” (come affermato dal ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant), o paragonare l’evento all’11 settembre e creare false analogie, come quando si paragona la resistenza palestinese con l’Isis. Le perdite umane, da entrambe le parti, sono assolutamente deplorevoli ma, sia quando i palestinesi agiscono in modo pacifico (come nella Marcia del ritorno) sia quando ricorrono alla violenza, vengono uccisi e condannati. In generale, ritengo che tali eventi evochino diverse e complesse emozioni tra i palestinesi e nella società palestinese. Queste emozioni possono includere paura, rabbia, frustrazione, dolore e un profondo senso di ingiustizia, ma anche speranza e orgoglio. I palestinesi hanno vissuto decenni di traumi e sofferenze, le quali contribuiscono all’intensità delle loro reazioni emotive. Le opinioni su Hamas sono diverse: molti la considerano un’organizzazione di liberazione e sostengono gli sforzi di resistenza del gruppo, altri si oppongono alle sue tattiche e temono la vendetta israeliana e le intenzioni genocide. È importante ricordare che i palestinesi hanno prospettive politiche e ideologiche diverse, che possono variare significativamente in base a fattori come la geografia, le differenze generazionali e le esperienze individuali. L’opinione pubblica può inoltre mutare in risposta all’evolvere delle dinamiche della lotta e degli sviluppi internazionali. 

Come si riverbera tutto ciò sulla vita dei cittadini palestinesi e sulla coesistenza precaria tra arabi palestinesi, arabi israeliani ed ebrei israeliani in luoghi di convivenza come Gerusalemme?
SJ Gli eventi violenti si riflettono profondamente nella vita quotidiana dei cittadini palestinesi, colpendoli su vari livelli. Questo impatto non si limita agli abitanti di Gaza e della Cisgiordania, si estende alle aree con popolazioni miste, come i gerosolimitani e i palestinesi con cittadinanza israeliana. Gerusalemme è al centro di tutto questo ed è stata un punto focale delle tensioni, a causa dei siti religiosi e dell’accesso alla Città Vecchia. In ogni caso, la coesistenza è un mito che non regge alla minima tensione politica. Per gli israeliani, i palestinesi sono tutti schiavi. Non c’è coesistenza possibile tra occupante e occupato, tra il popolo eletto da dio e gli indigeni disumanizzati, demonizzati o invisibili della Palestina occupata: il popolo eletto si sente in diritto di appropriarsi della loro terra. Nel migliore dei casi, i palestinesi sono controllati da posti di blocco, chiusure di strade e operazioni militari. Nei momenti di maggiore tensione e violenza, vendette e ritorsioni si diffondono a macchia d’olio. Nel mio quartiere a Gerusalemme, Beit Hanina, i giovani vengono brutalmente picchiati se sorpresi a guardare il telegiornale oppure ad ascoltare le canzoni nazionali. I nostri colleghi e le nostre controparti israeliane, di solito amichevoli, spesso ci provocano nelle discussioni per estorcerci una condanna nei confronti della resistenza; se ci asteniamo, questo ci sottopone a etichettature e ritorsioni. Alcuni professionisti hanno anche perso il lavoro perché bollati come “simpatizzanti di Hamas”. 

Che cosa rappresenta la Striscia di Gaza per i palestinesi della Cisgiordania e per i profughi sparsi nel mondo e qual è il limite tra volontà di vivere e disponibilità a morire?
SJ Gaza ha un forte significato simbolico per i palestinesi, gli arabi e le altre nazioni che lottano contro l’oppressione e la colonizzazione: è la lotta di Davide contro Golia. Ogni due anni Israele dichiara una guerra e demolisce massicciamente edifici, scuole e ospedali per annientare la resistenza, che ogni volta ne esce più forte e determinata. In arabo Gaza significa “punta” e, metaforicamente, è la punta nella laringe dell’occupazione. Gaza è anche il simbolo del sumoud palestinese, della fermezza, della resilienza e della determinazione di fronte alle avversità. Gli abitanti di Gaza sono percepiti come tenaci nel perseguire il loro obiettivo di autodeterminazione e giustizia. I palestinesi della Cisgiordania e della diaspora nutrono spesso un profondo senso di solidarietà nei confronti dei palestinesi di Gaza, li vedono come difensori in prima linea della causa. La situazione della Striscia rafforza il senso di unità e l’impegno condiviso per il riconoscimento dello Stato palestinese e del diritto al ritorno dei rifugiati. Per quanto riguarda la volontà di vivere e la disponibilità a morire, è essenziale affrontare questo argomento con sensibilità. I palestinesi, come le persone di qualsiasi altra comunità, apprezzano la vita e lottano per un futuro migliore per sé stessi e per le loro famiglie. Il concetto di “disponibilità a morire” non deve essere ridotto alla volontà di compiere atti di violenza, ma deve essere inteso in un contesto più ampio: come lotta per la libertà e per una vita dignitosa. Molti palestinesi si sono impegnati nella resistenza nonviolenta quali le proteste pacifiche, l’advocacy o la disobbedienza civile nel tentativo di portare avanti la loro causa. Questo riflette un impegno a cambiare senza ricorrere alla forza, eppure tutti questi tentativi si sono scontrati con la violenza israeliana: quanti manifestanti sono morti durante la Marcia del ritorno? L’obiettivo finale dei palestinesi è quello di garantire un futuro migliore a sé stessi e alle generazioni a venire caratterizzato da pace, libertà e dignità. La volontà di compiere sacrifici è spesso guidata dal desiderio di raggiungere quest’obiettivo. 


di Alessandro Di Rienzo e Noha Tofeile –

Pagine Esteri – 14 maggio 2021 – Ibrahim Nasrallah è nato nel 1954 da genitori palestinesi che furono sradicati dalla loro terra nel 1948. Autore di quattordici raccolte di poesie e ventidue romanzi la sua serie epica “The Palestinian Comedy” copre 250 anni di storia palestinese moderna. Il romanzo Febbre (in Italia pubblicato con Edizioni Lavoro) è stato elencato da The Guardian come uno dei dieci romanzi più importanti sul mondo arabo. Ha ricevuto il Premio internazionale 2018 per la narrativa araba per il romanzo “La seconda guerra del cane”. Nel 2020 è diventato il primo scrittore arabo a ricevere per la seconda volta il “Premio Katara” con “Un carro armato sotto l’albero di Natale”. In Italia è tradotto anche con il romanzo “Dentro la notte” (Illiso edizioni). Consideriamo Ibrahim Nasrallah l’autore palestinese vivente con la maggior tensione verso l’universale in quanto la sua opera è rivolta ad una unica platea, araba o occidentale che sia. Le domande sono state poste un attimo prima che la protesta di Gerusalemme fosse accompagnata dai razzi su Tel Aviv e missili su Gaza, le risposte sono arrivate un attimo dopo.

Ibrahim Nasrallah, il presidio delle case di Sheikh Jarrah, la rivendicazione del diritto alla socialità fuori la Porta di Damasco, la difesa delle Spianata delle Moschee. Con quali parole racconterebbe l’ultimo mese, il mese del Ramadan 2021, a Gerusalemme?

Tutte le parole convergono e si combinano in una sola: libertà. Noi palestinesi siamo le ultime persone al mondo a soffrire l’occupazione e vogliamo liberarci, vivere come tutti gli esseri umani con dignità e sicurezza e non dover aver paura per i nostri figli. Vogliamo essere rassicurati che il giorno dopo verrà, e che verrà senza proiettili. Qui le persone rivendicano il diritto alla loro patria sotto sequestro e desiderano che i crimini di guerra non continuino senza responsabilità. Le persone manifestano e si ribellano non perché amano la morte, ma perché amano la vita e vogliono che la vita sia l’eredità da lasciare a figli e nipoti.

Come viene vissuto dai palestinesi della diaspora la rivendicazione ad esistere dei propri connazionali a Gerusalemme?

I palestinesi a Gerusalemme non solo difendono se stessi e la loro città, ma soprattutto i valori di giustizia che i palestinesi della diaspora hanno difeso, il popolo del Sud Africa ha difeso, l’Europa ha difeso nella seconda guerra mondiale e che le persone di coscienza ovunque difendono.

Nella mia prima intervista alla stampa, quando ero giovane, 41 anni fa, ho detto: siamo con la Palestina non perché siamo palestinesi o arabi, siamo con essa perché è una prova quotidiana della coscienza del mondo. Questo è ciò che stanno facendo i palestinesi della diaspora e che stanno facendo i sostenitori della giustizia e della dignità umana in ogni dove. Alzano la voce contro i crimini commessi dall’occupazione. Solo la scorsa settimana gli israeliani hanno demolito e distrutto centinaia di case palestinesi, uccidendo più di 60 persone e ferendone altre 1.200.

In “Dentro la notte” battaglie, massacri e espropri si confondono in un onirico flusso di coscienza. Cosa ancora deve accadere nella notte dei palestinesi prima che arrivi l’alba?

Oggi e sempre il palestinese non ha mai sognato niente di diverso dall’essere al sicuro e rassicurato quando mette la testa sul suo cuscino per dormire. Siamo stanchi dei massacri e degli incubi. Alcuni di noi sono nati, vissuti e sono morti assediati da questi incubi e da questa uccisione. Vogliamo sognare cose belle, di un futuro, di bambini che crescono normalmente, sogniamo di crescere i nostri figli senza timori e di piantare i nostri alberi senza preoccupazioni. Persino gli alberi non sfuggono alle forze israeliane, milioni di alberi sono stati tagliati o bruciati. È quello che hanno fatto nel villaggio di Burin, vicino a Nablus, una settimana fa. I coloni hanno bruciato le fattorie e i frutteti del villaggio, come gli ulivi e il resto degli alberi da frutta. L’occupazione qui considera anche gli alberi come suoi nemici, quindi li sradica e li brucia.

La stampa internazionale ha ignorato le cene, le riprese con gli smartphone che rivendicavano il diritto a esistere a Gerusalemme. Non ignoreranno e condanneranno altre forme di resistenza. Siamo complici con la negazione ad esistere dei palestinesi?

Da settantatre anni, il palestinese ha chiesto alle persone di tutto il mondo di capire la sua causa e di vedere lo stesso palestinese come un rifugiato fuori dalla sua terra natia e prigioniero all’interno della patria, come un oppresso contro il quale vengono praticate tutte le forme di omicidio, pulizia etnica, tutte le forme di razzismo. Non sono solo io a dirlo, lo dicono anche tutte le organizzazioni internazionali: Amnesty International, la Corte internazionale di giustizia, le risoluzioni delle Nazioni Unite e le stesse Nazioni Unite.

Ma c’è chi chiude gli occhi, c’è chi non vuole riconoscere la tragedia di questo popolo che da più di cento anni difende la propria patria. I crimini israeliani sono ovunque e a Gerusalemme ci sono crimini gravi contro la Chiesa del Santo Sepolcro e contro la Moschea di Al-Aqsa, contro cristiani e musulmani. Ho scritto un romanzo intitolato “Un carro armato sotto l’albero di Natale” su ciò che hanno fatto gli israeliani contro i cristiani a Beit Sahour e a Betlemme. Hanno ucciso persone in queste due città, confiscato i loro soldi nelle banche, le loro fedi nuziali e gioielli in oro delle donne, hanno ucciso gli animali che danno il latte necessario ai bambini palestinesi.

Nonostante tutto questo alcuni insistono sul fatto di non vedere questi crimini, il palestinese è stanco di questo, stanco della cecità di coscienza ampiamente praticata dai media e dai politici occidentali, quindi i palestinesi si ribellano ancora e ancora per vivere la libertà che le persone vivono ovunque.

Due anni fa chiesi a Marwan Jubeh, libraio dell’unica libreria di Ramallah Al-Jubeh, quali fossero gli autori palestinesi viventi più letti e mi fece solo il suo nome. Letteratura e poesia, la sua, sembrano essere un collante fondativo della nazionalità palestinese. Si assolve a questo ruolo volontariamente o involontariamente?

Scrivere per me è un progetto di vita, anzi, un progetto di esistenza. Quando scrivo, e quando scrivono i palestinesi vogliamo ribadire che esistiamo, che non siamo morti, che non possiamo morire. Ma la scrittura è anche un progetto estetico, vogliamo contribuire allo sviluppo anche della letteratura, intediamo offrire al mondo qualcosa di bello, così come il mondo ci regala qualcosa di bello, così come l’Italia ha offerto Dino Buzzati, Luigi Pirandello e Alessandro Barrico. Vogliamo presentare qualcosa di bello al popolo, e quando le persone leggono i nostri lavori ovunque nel mondo vogliamo che queste persone li apprezzino e li amino, non solo perché ci sostengono, ma perché sono buoni e bei libri.

Sono felice che i miei libri siano letti ampiamente in Palestina e che il gruppo più numeroso di miei lettori sia costituito da giovani in Palestina come all’estero, sono lieto di essere classificato come uno dei più influenti scrittori arabi. Sento che il mio fedele lavoro di scrittura, che dura da più di 45 anni, non è stato vano e che i miei libri influenzano e donano alle persone speranza e amore per la vita.