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di Alessandro Di Rienzo e Noha Tofeile –

Pagine Esteri – 14 maggio 2021 – Ibrahim Nasrallah è nato nel 1954 da genitori palestinesi che furono sradicati dalla loro terra nel 1948. Autore di quattordici raccolte di poesie e ventidue romanzi la sua serie epica “The Palestinian Comedy” copre 250 anni di storia palestinese moderna. Il romanzo Febbre (in Italia pubblicato con Edizioni Lavoro) è stato elencato da The Guardian come uno dei dieci romanzi più importanti sul mondo arabo. Ha ricevuto il Premio internazionale 2018 per la narrativa araba per il romanzo “La seconda guerra del cane”. Nel 2020 è diventato il primo scrittore arabo a ricevere per la seconda volta il “Premio Katara” con “Un carro armato sotto l’albero di Natale”. In Italia è tradotto anche con il romanzo “Dentro la notte” (Illiso edizioni). Consideriamo Ibrahim Nasrallah l’autore palestinese vivente con la maggior tensione verso l’universale in quanto la sua opera è rivolta ad una unica platea, araba o occidentale che sia. Le domande sono state poste un attimo prima che la protesta di Gerusalemme fosse accompagnata dai razzi su Tel Aviv e missili su Gaza, le risposte sono arrivate un attimo dopo.

Ibrahim Nasrallah, il presidio delle case di Sheikh Jarrah, la rivendicazione del diritto alla socialità fuori la Porta di Damasco, la difesa delle Spianata delle Moschee. Con quali parole racconterebbe l’ultimo mese, il mese del Ramadan 2021, a Gerusalemme?

Tutte le parole convergono e si combinano in una sola: libertà. Noi palestinesi siamo le ultime persone al mondo a soffrire l’occupazione e vogliamo liberarci, vivere come tutti gli esseri umani con dignità e sicurezza e non dover aver paura per i nostri figli. Vogliamo essere rassicurati che il giorno dopo verrà, e che verrà senza proiettili. Qui le persone rivendicano il diritto alla loro patria sotto sequestro e desiderano che i crimini di guerra non continuino senza responsabilità. Le persone manifestano e si ribellano non perché amano la morte, ma perché amano la vita e vogliono che la vita sia l’eredità da lasciare a figli e nipoti.

Come viene vissuto dai palestinesi della diaspora la rivendicazione ad esistere dei propri connazionali a Gerusalemme?

I palestinesi a Gerusalemme non solo difendono se stessi e la loro città, ma soprattutto i valori di giustizia che i palestinesi della diaspora hanno difeso, il popolo del Sud Africa ha difeso, l’Europa ha difeso nella seconda guerra mondiale e che le persone di coscienza ovunque difendono.

Nella mia prima intervista alla stampa, quando ero giovane, 41 anni fa, ho detto: siamo con la Palestina non perché siamo palestinesi o arabi, siamo con essa perché è una prova quotidiana della coscienza del mondo. Questo è ciò che stanno facendo i palestinesi della diaspora e che stanno facendo i sostenitori della giustizia e della dignità umana in ogni dove. Alzano la voce contro i crimini commessi dall’occupazione. Solo la scorsa settimana gli israeliani hanno demolito e distrutto centinaia di case palestinesi, uccidendo più di 60 persone e ferendone altre 1.200.

In “Dentro la notte” battaglie, massacri e espropri si confondono in un onirico flusso di coscienza. Cosa ancora deve accadere nella notte dei palestinesi prima che arrivi l’alba?

Oggi e sempre il palestinese non ha mai sognato niente di diverso dall’essere al sicuro e rassicurato quando mette la testa sul suo cuscino per dormire. Siamo stanchi dei massacri e degli incubi. Alcuni di noi sono nati, vissuti e sono morti assediati da questi incubi e da questa uccisione. Vogliamo sognare cose belle, di un futuro, di bambini che crescono normalmente, sogniamo di crescere i nostri figli senza timori e di piantare i nostri alberi senza preoccupazioni. Persino gli alberi non sfuggono alle forze israeliane, milioni di alberi sono stati tagliati o bruciati. È quello che hanno fatto nel villaggio di Burin, vicino a Nablus, una settimana fa. I coloni hanno bruciato le fattorie e i frutteti del villaggio, come gli ulivi e il resto degli alberi da frutta. L’occupazione qui considera anche gli alberi come suoi nemici, quindi li sradica e li brucia.

La stampa internazionale ha ignorato le cene, le riprese con gli smartphone che rivendicavano il diritto a esistere a Gerusalemme. Non ignoreranno e condanneranno altre forme di resistenza. Siamo complici con la negazione ad esistere dei palestinesi?

Da settantatre anni, il palestinese ha chiesto alle persone di tutto il mondo di capire la sua causa e di vedere lo stesso palestinese come un rifugiato fuori dalla sua terra natia e prigioniero all’interno della patria, come un oppresso contro il quale vengono praticate tutte le forme di omicidio, pulizia etnica, tutte le forme di razzismo. Non sono solo io a dirlo, lo dicono anche tutte le organizzazioni internazionali: Amnesty International, la Corte internazionale di giustizia, le risoluzioni delle Nazioni Unite e le stesse Nazioni Unite.

Ma c’è chi chiude gli occhi, c’è chi non vuole riconoscere la tragedia di questo popolo che da più di cento anni difende la propria patria. I crimini israeliani sono ovunque e a Gerusalemme ci sono crimini gravi contro la Chiesa del Santo Sepolcro e contro la Moschea di Al-Aqsa, contro cristiani e musulmani. Ho scritto un romanzo intitolato “Un carro armato sotto l’albero di Natale” su ciò che hanno fatto gli israeliani contro i cristiani a Beit Sahour e a Betlemme. Hanno ucciso persone in queste due città, confiscato i loro soldi nelle banche, le loro fedi nuziali e gioielli in oro delle donne, hanno ucciso gli animali che danno il latte necessario ai bambini palestinesi.

Nonostante tutto questo alcuni insistono sul fatto di non vedere questi crimini, il palestinese è stanco di questo, stanco della cecità di coscienza ampiamente praticata dai media e dai politici occidentali, quindi i palestinesi si ribellano ancora e ancora per vivere la libertà che le persone vivono ovunque.

Due anni fa chiesi a Marwan Jubeh, libraio dell’unica libreria di Ramallah Al-Jubeh, quali fossero gli autori palestinesi viventi più letti e mi fece solo il suo nome. Letteratura e poesia, la sua, sembrano essere un collante fondativo della nazionalità palestinese. Si assolve a questo ruolo volontariamente o involontariamente?

Scrivere per me è un progetto di vita, anzi, un progetto di esistenza. Quando scrivo, e quando scrivono i palestinesi vogliamo ribadire che esistiamo, che non siamo morti, che non possiamo morire. Ma la scrittura è anche un progetto estetico, vogliamo contribuire allo sviluppo anche della letteratura, intediamo offrire al mondo qualcosa di bello, così come il mondo ci regala qualcosa di bello, così come l’Italia ha offerto Dino Buzzati, Luigi Pirandello e Alessandro Barrico. Vogliamo presentare qualcosa di bello al popolo, e quando le persone leggono i nostri lavori ovunque nel mondo vogliamo che queste persone li apprezzino e li amino, non solo perché ci sostengono, ma perché sono buoni e bei libri.

Sono felice che i miei libri siano letti ampiamente in Palestina e che il gruppo più numeroso di miei lettori sia costituito da giovani in Palestina come all’estero, sono lieto di essere classificato come uno dei più influenti scrittori arabi. Sento che il mio fedele lavoro di scrittura, che dura da più di 45 anni, non è stato vano e che i miei libri influenzano e donano alle persone speranza e amore per la vita.

Per merito di Sellerio è ricomparso da due anni tra gli scaffali “Ponzio Pilato” di Roger Caillois nella traduzione di Luciano De Maria. Scritto nel 1961, venne pubblicato in Italia con Einaudi nel 1963, il piccolo ma intenso romanzo sembra essere l’unica opera di ingegno narrativo dell’illustre sociologo, antropologo e critico letterario.  Caillois ripercorre l’arresto e il processo a Gesù Cristo dalla prospettiva di un modesto funzionario imperiale dal carattere razionale e dall’indole disincantata. L’empatia suscitata con l’impiegato statale sannita con mansione di procuratore della Giudea è pressoché inevitabile. Gesù diviene una pratica scocciante da espletare, insidiosa perché rischia di incrinare il rapporto con l’élite ebraica e quindi la reputazione dell’onesto funzionario agli occhi dei superiori a Roma. L’esito del romanzo è un capolavoro leggero quanto intenso dove il protagonista  compete dialetticamente e idealmente con i colleghi personaggi caratterizzati dalla penna di Michail Afanas’evič Bulgakov de “Il Maestro e il Margherita” (1967) e con quella di Anatole France de “Il Procuratore della Giudea” (1902).  L’elegante ed essenziale volumetto grigio della Sellerio non potrebbe, non dovrebbe, mancare mai nella nostra libreria.

AUTORE Roger Caillois
TITOLO Ponzio Pilato
TRADUZIONE Luciano De Maria
EDITORE Sellerio
prezzo 12,50


per AgoraVox apparso il 13 agosto 2019

Dalla finestra sull’ingresso di Bab al Sisila alla Spianata delle Moschee entrano rumori assordanti. Si tratta di una delle undici porte che consentono l’ingresso alla Spianata, una sola di queste consente di entrare ai non musulmani. 

Di questo luogo come di altri siti sacri della città vecchia di Gerusalemme conoscevo regole che credevo consolidate: la Spianata ai musulmani e il Muro del Pianto agli ebrei, con possibilità dei turisti e di donne e uomini di altre confessioni di visitare entrambi i luoghi in orari e con modalità stabiliti dalle autorità e dagli enti deputati ad amministrarli. Ma dai rumori che entrano dalla finestra capisco che la regola non è poi così consolidata, un check point della polizia militare israeliana limita l’ingresso ai non musulmani e ferma continuamente gruppi di ultrareligiosi nazionalisti e di ortodossi che sostano a pregare, o a cantare, contemplando quello che doveva essere il Tempio distrutto prima da Nabucodonosor nel 586 a.C. e poi dalle truppe di Tito nel 70. d.C. Di tanto in tanto alla polizia tocca fronteggiare il gruppi di ultranazionalisti impegnati in atteggiamenti provocatori per liberare l’ingresso della porta; capita anche che gruppi di turisti la visitino seguendo una guida che illustra su un cartello gli ingressi a quello che doveva essere fino a duemila anni fa il Tempio.

Avverto che la pressione sulla Spianata da parte di Israele è ormai divenuta fortissima, che la passeggiata di Sharon del 28 settembre del 2000, la quale scatenò la seconda intifada, rappresenta solo l’inizio di un tabù che lo si voleva rotto, che la regola che consideravo consolidata, regola questa legittimata da uno status quo sancito dalla Giordania con Israele, è di fatto mutevole, dinamico, in continua trasformazione in favore degli israeliani e delle forze occupanti, come ogni trasformazione che qui avviene dal 1948 a oggi. Fino a ieri l’ingresso alla Spianata era consentito ai non musulmani, quindi anche agli ebrei, in un orario concordato tranne nei giorni delle ricorrenze riconosciute dal calendario islamico. Altre fedi confessionali è vietato pregare sulla Spianata.

Arriva poi il giorno degli scontri. Quest’anno la Festa del Sacrificio dei musulmani coincide con il giorno del digiuno ebraico per la ricorrenza della distruzione del Tempio. Le tensioni si concentrano sulla Spianata, terzo luogo sacro per importanza dell’Islam, che ospita la moschea di al-Aqsa. Di mattina presto migliaia e migliaia di musulmani accorrono sulla Spianata per la preghiera che da inizio alla festività, sulla porta sotto la finestra donne, uomini e bambini entrano ordinati tra i canti degli ebrei che presidiano la porta. Tutto fila liscio fino alla fine della preghiera, poi gli scontri. A detta dei palestinesi immotivati per sgomberare la Spianata, a detta degli israeliani motivati da un canto presuntamente nazionalista salmodiato dai palestinesi: “per la nostra anima, per il nostro sangue, ci sacrifichiamo a te al-Aqsa”. Liberata la Spianata dai musulmani entrano 1729 ultranazionalisti religiosi israeliani, quella che allora fu la passeggiata di Sharon 19 anni dopo viene moltiplicata per 1729. 

Haaretz, la stampa israeliana progressista racconta l’accaduto: come la vittoria degli opposti estremismi. Potrebbe essere vero se la premessa a questa interpretazione godesse di un principio egalitario, così purtroppo non è. A spiegare bene le cose è un attentissimo osservatore delle trasformazioni di Gerusalemme, si chiama Daniel Seidemann e dal suo account twitter in sei cinguettii spiega: 

Per coloro che sono interessati, e in particolare per quelli che si stanno dimostrando eloquenti sulla libertà di culto sul Monte del Tempio, è necessario un confronto. Diamo un’occhiata al Muro del Pianto: I musulmani possono entrare/attraversare la piazza del Muro del Pianto? Sì, a meno che tu non sia un palestinese. I musulmani provenienti dalla Turchia e dall’Indonesia possono entrare sul piazzale antistante, soggetto al consueto controllo di sicurezza. I palestinesi non possono entrare – anche se controllati dalla sicurezza. Ci sono eccezioni al divieto generale sui palestinesi per l’ingresso all’area del Muro del Pianto? Sì. I palestinesi possono entrare e attraversare il la piazza del Muro del Pianto se ottengono il “permesso pedonale”. Chi rilascia il permesso? Il comandante della polizia della Muro Occidenale Heritage Foundation. Ai palestinesi sono concessi “permessi pedonali”? Sì, in piccola parte, per lo più gli anziani o gli infermi hanno potuto entrare nel Monte del Tempio attraverso la Porta dei Mughrabi . Praticamente tutti gli altri palestinesi sono respinti all’ingresso e non hanno diritto a permessi.

È una questione di sicurezza? No. Nessuna quantità di controlli di sicurezza o controlli è sufficiente per consentire a un palestinese di attraversare la piazza antistante al Muro del Pianto. Non mi credi? Ecco una copia del modulo di domanda per un “permesso pedonale”. : Libertà religiosa chiunque? 

In sei cinguettii Daniel Seidemann racconta la disparità, anche in tema confessionale, di diritto di cittadinanza tra israeliani e palestinesi a Gerusalemme. Una apartheid che oggi si traduce anche in agibilità confessionale, agli ebrei israeliani è concesso camminare sulla Spianata delle Moschee agli arabi palestinesi non è concesso avvicinarsi al Muro del Pianto. Solo ai gatti, indisturbati e inosservati alle molteplici frontiere, è concesso di elemosinare attenzioni sia al Muro del Pianto che alla Spianata delle Moschee. 

Considerazioni a margine:

– Martedì 17 settembre 2019 Israele va al voto per il rinnovo della Knesset e del governo. É facilmente deducibile che l’accaduto dell’11 agosto sulla Spianata delle Moschee risenta anche del clima elettorale e del costante ammiccamento di Benjamin Netanyahu ai coloni e ultrareligiosi.

– Tra i 1729 ebrei entrati nella Spianata della Moschee vi era anche l’ex parlamentare del Likud Yehuda Glick che da anni lavora alla ricostruzione del Tempio ebraico sulla Spianata delle Moschee. Alla domanda della giornalista francese Marine Vlahovic “se l’intrusione sulla Spianata non fosse una violazione dello status quo” Glick ha risposto che “non gli risulta che lo status quo sia una religione”.

– Ho il sospetto che la nenia cantata dagli ultrareligiosi israeliani non sia meno nazionalista del canto palestinese, una comparazione tra i canti e la rispettiva agibilità di essere cantati sarebbe un tema di approfondimento a mio avviso interessante.

– Lo svuotamento progressivo dalla città vecchia di Gersulamme degli arabi palestinesi è riscontrabile anche al distratto turista, come lo sono io, che frequenta questo luogo negli anni sporadicamente. Anche questo è un tema che andrebbe approfondito, restano impresse sul mio timpano le parole di un giovane fotografo palestinese: “per quanto riguarda Gerusalemme negli anni i giordani si sono interessati ad amministrare i suoli, gli israeliani invece ad amministrare le persone. Sul lungo periodo hanno vinto gli israeliani”.

– Per come l’ho conosciuto l’ebraismo, l’appartenenza a questa comunità confessionale, è fortemente caratterizzato dalla diaspora e dalla negazione del Tempio. Come se l’ebraismo risiedesse nella costante elaborazione della distruzione del Tempio. Avverto quasi una mutazione genetica, una trasformazione radicale di tale religione già nella sola praticabilità della Spianata, nel suolo cioè dove un tempo sorgeva il Tempio. Di questo argomento ho solo una conoscenza superficiale che non mi consente di avere una idea chiara e di poter dire alcunché, avverto solo una immanente trasformazione della natura e dell’essere ebreo.