di Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo

Mustafa Barghouti è medico e attivista palestinese. Dirige una Ong che ha 32 équipe sanitarie a Gaza: “Ci raccontano storie terribili, sono esausti”. Nella Striscia sono stati sganciati 30 chilogrammi di esplosivo per ogni abitante, uccidendo almeno 13.500 bambini e lasciandone 20mila orfani. Sugli aiuti dal cielo, spiega, è pura ipocrisia.

Bombardamenti indiscriminati e stragi di civili colpiscono la Striscia di Gaza da cinque mesi; 1,5 milioni di palestinesi sono profughi nella città di Rafah, minacciati da un’imminente espulsione e da una carestia. Gli aiuti umanitari che potrebbero raggiungere Gaza via terra sono bloccati da Israele mentre un quantitativo insufficiente di cibo viene paracadutato dal cielo. Per buona parte dell’opinione pubblica mondiale si stanno toccando nuove vette di disumanità. Ne abbiamo parlato con Mustafa Barghouti, medico e attivista palestinese, segretario generale dell’Iniziativa nazionale palestinese e della Ong Palestinian medical relief society.

Barghouti, gli Stati Uniti hanno proposto un porto galleggiante per garantire l’accesso degli aiuti e aggirare il blocco. Via terra o via mare, Israele decide infatti che cosa può entrare nella Striscia di Gaza, i cui abitanti versano in una gravissima crisi umanitaria. Che cosa ne pensa?
MB 
Ciò a cui stiamo assistendo sono terribili crimini di guerra, un comportamento selvaggio, senza precedenti. Abbiamo a che fare con un governo fascista che è andato oltre ogni livello di rispetto dei diritti umani ma non sarebbe stato in grado di farlo senza la complicità degli Stati Uniti e il silenzio dell’Occidente: c’è molta complicità, e persino partecipazione, ai crimini di guerra contro Gaza. Israele sta bloccando l’ingresso di migliaia di camion di aiuti umanitari, negando l’accesso a quei rifornimenti così necessari per le persone che sta affamando, per le 54mila donne che non possono allattare al seno o le 50mile donne incinte a rischio. Invece di fare pressione su Israele affinché permetta ai camion di passare, distraggono il mondo con questa stupidaggine di paracadutare gli aiuti: la metà finisce in mare o negli insediamenti israeliani, il resto è insufficiente. A causa dei paracadute sono morte sei persone e 12 sono rimaste ferite. È un modo per distogliere l’attenzione dalla realtà, terribile, che gli Stati Uniti consentono. E l’idea del porto non è migliore. Perché dobbiamo aspettare due o tre mesi, così che la metà di coloro che oggi stanno morendo di fame saranno già morti, invece di dire a Israele di lasciare entrare i camion degli aiuti a Gaza? Temo che questo porto costruito da Israele, sotto il suo controllo, sia un modo per consolidare la rioccupazione di Gaza e venga usato per la pulizia etnica del popolo della Striscia.

Sostegno e legittimazione per le aspirazioni palestinesi sono venuti da democrazie recenti ma non dagli Stati Uniti e dall’Europa. La Palestina troverà mai un pieno riconoscimento?
MB
 Sono 30 anni che sentiamo discorsi sulla soluzione dei due Stati e molti dei Paesi occidentali ancora non riconoscono la Palestina. È una tale ipocrisia parlare di questo progetto e poi riconoscere solamente Israele. È davvero ipocrita continuare a dire che gli insediamenti sono illegali e non intraprendere azioni punitive. Quando si confronta la posizione sull’Ucraina con quella sui territori palestinesi occupati si evincono l’ipocrisia e i doppi standard. In Ucraina hanno imposto sanzioni alla Russia e inviato miliardi di dollari in aiuti e attrezzature militari. Nel caso della Palestina hanno spedito tonnellate di esplosivo agli occupanti, all’esercito israeliano, e continuano a parlare del diritto di Israele a difendersi come se questo equivalesse a quello di massacrare i palestinesi. Gli Stati Uniti hanno fornito 28mila tonnellate di esplosivo allo Stato ebraico, che ne ha sganciato in tutto 70mile tonnellate in un’area di 365 chilometri quadrati: 30 chilogrammi di esplosivo per ogni uomo, donna e bambino, il doppio della potenza delle due bombe nucleari utilizzate contro il Giappone.

Metà dei governi del mondo definisce quanto accaduto il 7 ottobre come un atto di terrorismo, mentre l’altra metà come un’azione di resistenza. Con la questione palestinese in cima all’agenda internazionale, il grande assente in questa narrazione è la società civile palestinese in Cisgiordania e una mobilitazione che rappresenti l’evoluzione dell’Intifada. Perché?
MB Non sono d’accordo, penso che la Cisgiordania stia vivendo una nuova Intifada dal 2015, è un tipo diverso di Intifada che avviene a ondate. Come nel 2021 con l’enorme rivolta in difesa di Al-Aqsa. Oggi l’esercito israeliano non può entrare in nessun villaggio senza incontrare resistenza popolare ma quello di Israele è un enorme sistema di oppressione: dal 7 ottobre in Cisgiordania hanno arrestato quasi ottomila persone e ne hanno uccise 440, compresi 80 bambini. Non gli interessa della vita umana. I palestinesi sono pronti a partecipare a qualsiasi forma di resistenza. Uno dei problemi è che la stessa Autorità palestinese continua a impedire la creazione di una leadership unificata.

Che cosa dovrebbe accadere affinché il popolo palestinese possa trovare una rappresentanza e una leadership unita sia a livello politico sia territoriale?
MB Dobbiamo continuare a lottare per una leadership unita, dobbiamo imporla all’Autorità palestinese e abbiamo il diritto di chiedere libere elezioni democratiche, che è l’unico modo per la Palestina di esercitare un cambiamento politico e una riforma democratica. Se ci fossero state le elezioni nel 2021 non saremmo in questa situazione. L’incontro (delle fazioni palestinesi, ndr) a cui ho partecipato a Mosca ha stabilito che, in primo luogo, tutti i partiti devono essere ammessi nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) che è considerata la rappresentante del popolo palestinese. In secondo luogo, abbiamo stabilito gli obiettivi del nostro movimento congiunto: fermare la guerra a Gaza, garantire la fornitura di aiuti umanitari e prevenire la pulizia etnica. Purtroppo la decisione della presidenza di nominare un primo ministro senza consultare altri gruppi non è costruttiva e non si adatta allo spirito condiviso a Mosca. Continueremo a provarci e ci saranno altri incontri per attuare ciò che abbiamo concordato. A nostro avviso, come Iniziativa nazionale palestinese e partito in rapida crescita, l’obiettivo più importante è creare una leadership unificata. Il prossimo incontro sarà probabilmente dopo il Ramadan.

Abbiamo visto fotografie di persone sfollate, senza cibo, senza casa, osservare l’iftar (il pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadanndr) con il poco che hanno. Com’è la situazione a Gaza?
MB È molto, molto triste. Dirigo un’organizzazione medica che conta 32 équipe a Gaza e ci raccontano storie terribili, sono esausti. Una nostra clinica deve visitare 1.200 pazienti ogni giorno e i farmaci stanno finendo molto rapidamente. Non avrei mai pensato nella mia vita di medico che avrei sentito di colleghi che devono amputare o operare un bambino senza anestesia. È orribile: mille bambini hanno perso le braccia o le gambe, 20mila sono rimasti orfani e il numero continua a crescere. La distruzione è incredibile. È la guerra più barbara e selvaggia mai vista. Israele afferma che 30 bambini israeliani siano stati uccisi il 7 ottobre, anche se finora non ho visto i nomi, ma anche se fosse vero, come potrebbe questo giustificare l’uccisione di 13.500 bambini palestinesi? E i leader occidentali che affermano di sostenere la democrazia e i diritti umani, come possono dormire sapendo che Israele -che riconoscono, sostengono e al quale forniscono armi- continua a uccidere migliaia di bambini? Non capisco. O sono diventati totalmente insensibili e non provano sentimenti verso l’umanità, oppure non sono animati da buone intenzioni.

Un’inchiesta di Altreconomia ha rivelato che il governo italiano ha continuato a vendere armi a Israele anche dopo il 7 ottobre. Come considera questa scelta?
MB Sono sicuro che questa decisione è contro la volontà della maggior parte degli italiani, è un comportamento crudele. Il vostro governo deve capire che, se il caso di genocidio passerà davanti alla Corte internazionale di giustizia, sarà ritenuto responsabile di aver partecipato. È una cosa molto grave. Continuare a sostenere uno Stato, un esercito, che commette non solo genocidio ma anche punizioni collettive e pulizia etnica violando il diritto internazionale non solo è vergognoso ma assolutamente irresponsabile e avrà delle conseguenze.

di Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo

Altreconomia 16 febbraio 2024

La scrittrice palestinese Susan Abulhawa, autrice di “Ogni mattina a Jenin”, richiama ciascuno alle proprie responsabilità di fronte a una “disumanità da mozzare il fiato”, trasmessa in “live streaming”. Prendere posizione in una prospettiva decolonizzante è più che mai necessario. Per porre fine all’occupazione israeliana e alla carneficina.

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese-americana nata in Kuwait da genitori resi profughi dalla Guerra dei sei giorni. Da bambina ha vissuto in un orfanotrofio di Gerusalemme prima di trasferirsi negli Stati Uniti, dove vive tutt’oggi. Attivista per i diritti umani, è saggista, scrittrice, poetessa oltre che fondatrice di un’organizzazione non governativa, Playgrounds for Palestine, che costruisce parchi giochi in Palestina e nei campi profughi in Libano. È inoltre coinvolta nella campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (Bds) ed è relatrice per Al Awda, la coalizione per il diritto al ritorno. 

Il suo primo romanzo, “Ogni mattina a Jenin” (Feltrinelli, 2006), è stato tradotto in 32 lingue e ha venduto più di un milione di copie rendendo Abulhawa l’autrice palestinese più letta di sempre. Quel romanzo è riuscito a colmare il vuoto, lamentato da Edward Said, di un’opera letteraria capace di rappresentare -soprattutto su un pubblico occidentale- la tragedia sofferta da diverse generazioni di palestinesi a partire dal 1948, anno della costituzione di Israele, a oggi. Per Abulhawa il romanzo rappresenta un potente mezzo di decolonizzazione e su questa direttrice interpreta la motivazione di autori come James Baldwin e Tina Morrison sull’immaginario della tradizione letteraria araba di autori come Ghassan Kanafani e Elias Khoury. 

Da attivista, nel corso degli anni, sempre in chiave decolonizzante, ha esortato i palestinesi a ricambiare la solidarietà ricevuta sottraendosi a una dialettica esclusivamente euro-anglocentrica, ritenendo le lotte indigene e per la giustizia sociale più forti e autorevoli se condotte insieme, in quanto la liberazione si raggiunge in modo più completo quando si è impegnati in quella degli altri. L’impegno del Sudafrica, che ha intentato la causa per genocidio contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia al di fuori di alleanze meramente geopolitiche, sembra darle pienamente ragione. 

Abbiamo intervistato Susan Abulhawa dopo quattro mesi di guerra, mentre il governo israeliano di Benjamin Netanyahu respingeva la proposta avanzata da Hamas di 135 giorni di tregua con scambio reciproco di prigionieri in vista di un accordo per porre fine alla guerra. Hamas aveva anche chiesto che durante la tregua l’esercito israeliano si ritirasse completamente dalla Striscia di Gaza, proposta giudicata inaccettabile dall’esecutivo di Tel Aviv. Nello stesso giorno il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha lasciato il Medio Oriente spiegando alla stampa che Israele non ha “la licenza per disumanizzare gli altri”. Dal 7 ottobre le vittime palestinesi sono oltre 28.400 e 60mila i feriti.

In “Ogni mattina a Jenin” la biografia di Amal e della sua famiglia condensa tutta la storia contemporanea della Palestina: la guerra, l’esilio, l’appropriazione della terra, il divenire rifugiati. La strategia di Israele su Gaza dopo il 7 ottobre sembra riprodurre tutti questi eventi nella quiescenza delle potenze occidentali, alcune delle quali hanno anche revocato il sostegno all’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite che assiste i rifugiati palestinesi. Come giudica il comportamento di Israele e degli Stati occidentali, Italia compresa?
SA Non c’è nulla di complicato in questa formula. Fin dalla sua nascita, Israele è stato un’iniziativa coloniale genocida nata in Europa tra le élite di ebrei europei che volevano accaparrarsi una fetta della torta coloniale. Indipendentemente dalle loro ragioni, che si tratti di una risposta all’antisemitismo o di semplice avidità, resta il fatto che sono degli stranieri venuti in Palestina con l’intento di allontanare gli indigeni dalla terra e rubare loro tutto quello che avevano. Questi sono i fatti. La narrazione biblica romanticizzata è pura fantasia che non ha alcuna rilevanza nella realtà o nella testimonianza storica e forense. Siamo un popolo indigeno che lotta per liberarsi da questo stato di apartheid basato sulla supremazia ebraica fascista e la storia ci darà ragione. Ci rifiutiamo di andare incontro al destino di altri popoli indigeni del mondo che sono stati vittime di genocidio, spinti ai margini delle loro terre d’origine, delle loro storie e del loro patrimonio. Gli Stati Uniti e gli altri alleati di questo Stato sionista fascista sono stati smascherati per quello che sono: dei mostri imperialisti. Abbiamo sempre saputo che le loro infinite guerre contro l’“altro” non avevano nulla a che vedere con gli alti ideali della democrazia e dei diritti umani. Ma ora l’imperatore è nudo, la loro malevolenza è chiara, affinché tutto il mondo possa vederla sullo sfondo di un genocidio trasmesso in live streaming.

“Siamo un popolo indigeno che lotta per liberarsi da questo stato di apartheid basato sulla supremazia ebraica fascista e la storia ci darà ragione. Ci rifiutiamo di andare incontro al destino di altri popoli indigeni del mondo che sono stati vittime di genocidio, spinti ai margini delle loro terre d’origine, delle loro storie e del loro patrimonio”

La Corte internazionale di giustizia dell’Aia ha ordinato a Israele di adottare tutte le misure possibili per prevenire atti di genocidio, di prevenire e punire l’incitamento diretto e pubblico al genocidio e di adottare misure immediate ed efficaci per garantire i servizi di base e gli aiuti umanitari ai civili a Gaza, ma non è riuscita a dichiarare Israele colpevole di genocidio né a ordinare un cessate il fuoco immediato, come invece aveva chiesto il Sudafrica. Qual è la sua opinione sulla decisione?
SA Il senso della decisione della Corte internazionale di giustizia non è mai stato quello di dichiarare Israele colpevole o meno. Questo pronunciamento doveva essere una misura provvisoria per valutare se vi fosse fondatezza nella causa avanzata dal Sudafrica affinché il processo potesse procedere e in secondo luogo per ordinare misure immediate per proteggere la popolazione palestinese. La decisione della Corte è stata positiva sotto entrambi i punti di vista. I giudici hanno stabilito che le prove indicano un genocidio e che il processo contro Israele procederà. Ci vorranno anni per arrivare a un giudizio e si sapeva fin dall’inizio. Nel frattempo, la Corte ha di fatto ordinato a Israele di fermare i bombardamenti indiscriminati e di smettere di utilizzare il cibo e l’acqua come arma contro i civili. Quindi, questa è stata una vittoria a tutti gli effetti per i palestinesi e per l’intero mondo colonizzato e oppresso.

Oltre a prendere deliberatamente di mira gli ospedali di Gaza, abbiamo assistito a raid ed esecuzioni sommarie anche nell’ospedale di Jenin, senza processo o sentenza alcuna…
SA Questa non è una novità. È solo che i media non hanno mai considerato l’uccisione dei palestinesi degna di nota, a meno che questi non siano riportati come numeri quando sui “giornali” mostrano in maniera puntuale la morte degli israeliani.

“Tutti devono prendere posizione. Non esiste una via di mezzo. Chi tace è complice di genocidio”

Rispetto a vent’anni fa, gli autori palestinesi vengono finalmente tradotti e distribuiti dalle grandi case editrici, anche qui in Italia. Se gli scrittori hanno un palcoscenico e una legittimità internazionale, non si può dire lo stesso dei leader politici o della solidarietà con i movimenti politici. Che cosa deve accadere nella società palestinese e nei movimenti di sostegno affinché tutti possano prendere parte con successo a un processo di decolonizzazione e liberazione?
SA Questo è un momento diverso da qualsiasi altro nella storia umana. Una disumanità da mozzare il fiato è sotto gli occhi di tutti, affinché tutti possano vederla e ascoltarla, e ha portato a galla altri orrori nella consapevolezza popolare, inclusa la tragica situazione di luoghi come Congo, Sudan, Yemen, Iraq, tra gli altri, dove le multinazionali e gli eserciti occidentali stanno scatenando violenze e devastazione per rubare le risorse di altre persone. Tutti devono prendere posizione. Non esiste una via di mezzo. Chi tace è complice di genocidio.

di Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo


Intervista a Suad Amiry, architetta e scrittrice di famosi romanzi come “Sharon e mia suocera”, “Damasco” e “Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea”. Guarda con rabbia ai fatti di Gaza. “La cosa più importante -dice- è togliere a Israele l’impunità concessagli dall’Occidente: nessuno dovrebbe essere al di sopra del diritto”

Da più di cento giorni la Striscia di Gaza è sottoposta a incessanti bombardamenti da parte dell’esercito israeliano. Oltre 25mila vittime, il 40% bambini, un terzo donne, molti gli anziani. Un milione e settecentomila persone, l’80% dei gazawi, ha dovuto lasciare casa e vaga in cerca di un riparo dalle bombe in un fazzoletto di terra che va progressivamente ridimensionandosi. La sanità è al collasso con 32 dei 36 ospedali fuori uso: 180 donne che partoriscono ogni giorno senza anestesia né assistenza, numerosi gli interventi e le amputazioni senza farmaci di supporto nei pochi ospedali rimasti, che versano in condizioni disumane. Nel perdurare della crisi umanitaria, con una popolazione tagliata fuori dai rifornimenti essenziali, l’unico tentativo di far cessare il fuoco lo ha compiuto la Repubblica del Sudafrica, intentando una causa di genocidio contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia. Abbiamo chiesto a Suad Amiry, architetta e scrittrice palestinese di famosi romanzi come “Sharon e mia suocera”, “Damasco” (Feltrinelli) e “Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea” (Mondadori) che cosa ne pensa della situazione attuale.

Amiry, per i palestinesi la causa di genocidio rappresenta una forma di riconoscimento di un torto cominciato nel 1948. Riconoscimento che non proviene da una democrazia liberale occidentale ma da una giovane democrazia che con Nelson Mandela ha raggiunto la fine dell’apartheid nel 1994. Che cosa significa questo per lei?
SA
 Grazie a dio la causa di genocidio non è stata portata alla Corte internazionale di giustizia da una democrazia occidentale: l’Occidente è complice dei crimini di guerra commessi a Gaza. Chi meglio del Sudafrica conosce l’orrore del razzismo, dell’apartheid, della violenza e della distruzione? Chi se non il Sudafrica simboleggia la necessità di porre fine alla supremazia bianca e all’egemonia occidentale? Chi se non Mandela simboleggia la dignità umana e il desiderio di uguaglianza, libertà e giustizia. Chi altri avrebbe potuto difendere con tanta dignità i palestinesi contro lo Stato di apartheid israeliano e chiamarlo con il suo nome? La lotta sudafricana per smantellare uno dei sistemi di apartheid più radicati è sempre stata fonte di ispirazione per i palestinesi. Semmai, il genocidio a cui assistiamo oggi a Gaza è solo un promemoria di dove si posiziona l’Occidente rispetto a Israele e ai suoi crimini.
Non c’è da stupirsi, perché la creazione stessa dello Stato di Israele (che ha portato all’espulsione del popolo palestinese nel 1948) è stata ed è tuttora un progetto coloniale occidentale fallito. Chiedo ai Paesi occidentali: che cosa vi abbiamo fatto noi palestinesi per meritare che ci voltiate le spalle? Che cosa abbiamo fatto al governo italiano, a quello francese, a quello tedesco o a quello britannico per meritare questo? Vi è stato solo chiesto di firmare un appello per il cessate il fuoco per salvare migliaia di civili innocenti e non siete ancora stati in grado di farlo. Vergognatevi. La guerra a Gaza non solo ha messo in luce l’aspetto criminale dell’occupazione israeliana che dura da oltre 76 anni, ma anche l’ipocrisia del mondo occidentale.

Nella sua letteratura la narrazione incrocia diversi periodi storici della vicenda palestinese; in alcuni casi il confronto generazionale avviene nella medesima biografia eppure per molti sembra che la tragedia delle 1.200 vittime israeliane, così come delle 25mila vittime palestinesi sia cominciata il 7 ottobre del 2023. Quale causa legale, quale azione morale e quale iniziativa politica pensa debba essere intentata per rendere giustizia ai palestinesi?
SA 
La cosa più importante è togliere a Israele l’impunità concessagli dall’Occidente: nessuno dovrebbe essere al di sopra del diritto internazionale. I Paesi occidentali devono mettere fine ai loro doppi standard nei confronti di Palestina e Israele. Finché Israele godrà di quest’impunità continuerà la sua occupazione. Come nel caso del Sudafrica, Israele deve essere boicottato e sanzionato dalla comunità internazionale; se non fosse stato per le sanzioni contro i “bianchi” il Sudafrica non sarebbe stato liberato. Gli Stati Uniti e l’Europa dovrebbero smettere di sostenere a parole la soluzione dei due Stati, questa adesione formale sta dando agli israeliani il via libera per continuare ad accaparrarsi più terre e costruire insediamenti. Come successo con la creazione di Israele nel 1947, l’Onu dovrebbe dichiarare uno Stato palestinese sui confini del 1967 e costringere gli israeliani a ritirarsi. In mancanza di ciò il ciclo di violenza continuerà finché persisteranno l’occupazione, l’assedio di Gaza e la costruzione di insediamenti ebraici. State certi che il desiderio di libertà, uguaglianza e indipendenza non scomparirà mai.
Nessuno accetta che gli vengano tolti la casa, i campi, i villaggi e le città con qualsiasi pretesto ideologico, politico o religioso. I palestinesi vogliono porre fine all’ingiustizia che si è abbattuta su di loro dal giorno in cui Israele è stato creato sulla Palestina. Nessuno vuole vivere come cittadino di seconda o terza classe in un sistema di apartheid con supremazia ebraica, dove gli ebrei hanno più diritti dei palestinesi. È ovvio che i vari governi israeliani che si sono succeduti hanno scelto di rubare le terre palestinesi piuttosto che fare la pace. È ovvio se si sceglie di costruire insediamenti ebraici e di trasferire 700mila coloni in Cisgiordania e di dare loro terre palestinesi gratuitamente. I coloni israeliani utilizzano il 90% dell’acqua della Cisgiordania, lasciandone il 10% a tre milioni di palestinesi. La guerra contro Gaza ha dimostrato la crudeltà del governo israeliano e i suoi atti criminali contro i civili: la sicurezza dei civili, il cibo, l’acqua, l’elettricità e le medicine vengono usati come armi contro la popolazione di Gaza. Lo sfollamento di due milioni di palestinesi dalle loro case è un altro crimine di guerra collettivo. Abbiamo bisogno di una soluzione politica, che si tratti di uno Stato palestinese indipendente o della fine dell’apartheid e la creazione di uno Stato con uguali diritti per tutti. Chiamatela Repubblica delle banane o Repubblica dell’anguria, non ha importanza.

Lei ha creduto e preso parte al processo di pace e agli Accordi di Oslo, per tre anni ha partecipato alle delegazioni a Washington. Perché quella proposta di pace non ha avuto seguito?
SA 
Come il tempo ha dimostrato, nessuno dei governi israeliani ha mai voluto riconoscere il diritto palestinese all’autodeterminazione. In altre parole Israele non è mai stata disposta a pagare il prezzo della pace, la restituzione delle terre che occupa dal 1967: Cisgiordania, Striscia di Gaza e la Gerusalemme araba. Nessuno dei governi israeliani che ha negoziato con i palestinesi per 30 anni (1991-2021) ha mai smesso di costruire insediamenti sulle terre occupate. Il che significa che Israele non ha mai seriamente voluto raggiungere una soluzione pacifica. Dopo Camp David, Israele ha previsto l’autogoverno del popolo ma non della terra, ciò che Netanyahu suggerisce anche oggi.
I palestinesi possono amministrare i propri affari civici, i servizi, ma nessun controllo sulla terra, sull’aria, sulle risorse e sulla sicurezza. Netanyahu continua a dire “Non ci sarà nessuno Stato palestinese. La terra tra il fiume e il mare sarà sotto il dominio israeliano”. Noi palestinesi e il mondo dobbiamo affrontare questa dura realtà e agire di conseguenza: senza la pressione della comunità mondiale non ci sarà mai uno Stato palestinese indipendente. E finché gli Stati Uniti e l’Europa considereranno Israele al di sopra della legge, assisteremo solo a ulteriori violenze.

di Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo

Altreconomia . 17 ottobre 2023


I riflessi sulla società palestinese degli attacchi di Hamas e dei bombardamenti israeliani, il destino della coesistenza e il limite tra volontà di vivere e disponibilità a morire. Intervista a Samah Jabr, psichiatra araba di Gerusalemme, scrittrice e presidente dell’Unità di salute mentale presso il ministero della Salute palestinese.

Samah Jabr è una psichiatra araba di Gerusalemme, scrittrice e presidente dell’Unità di salute mentale presso il ministero della Salute palestinese. Attingendo alla sua esperienza clinica e ispirata dal discorso di Frantz Fanon, nei suoi scritti restituisce uno sguardo lucido e disincantato sull’occupazione israeliana e sulla resistenza palestinese. Il suo libro “Dietro i fronti” è stato tradotto in inglese, francese, spagnolo e italiano, ma è in “Sumud” che definisce e riconosce al proprio popolo una capacità di contrastare la sopraffazione, un qualcosa di enormemente più grande della sola resilienza, che non si limita ad uno stato mentale di adattamento. Sono l’esodo, la negazione e il tentato sradicamento a generare pratiche positive di affermazione e sopravvivenza.

L’abbiamo intervistata a cavallo tra gli attacchi di Hamas e la controffensiva dell’esercito israeliano a Gaza, nel tentativo di andare oltre la drammatica cronaca di questi giorni, senza esserne sopraffatti. 

Jabr, quali sentimenti ha scatenato nella società palestinese l’offensiva di Hamas dalla Striscia di Gaza di inizio ottobre.
SJ Non posso fornire informazioni precise sui sentimenti del popolo palestinese ma credo che la maggior parte non sarebbe d’accordo con la parola “offensiva di Hamas”. I palestinesi definiscono ciò che è accaduto il 7 ottobre “resistenza”, che è considerata un diritto umano garantito dal diritto internazionale e un dovere morale per le persone di coscienza che desiderano la libertà. Persone che si sono assunte la responsabilità di rompere le mura della “prigione a cielo aperto” chiamata Striscia di Gaza dopo 16 anni di blocco totale e di attuare per qualche ora il diritto al ritorno dei palestinesi garantito dalla Risoluzione 194 delle Nazioni Unite ma negato da Israele. Osservando i social media palestinesi, si nota ammirazione per il coraggio della resistenza e disprezzo per i tentativi della politica e dei media israeliani e occidentali di isolare questo evento dai 75 anni di storia e occupazione militare israeliana. Come anche definire i palestinesi “terroristi” e “animali” (come affermato dal ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant), o paragonare l’evento all’11 settembre e creare false analogie, come quando si paragona la resistenza palestinese con l’Isis. Le perdite umane, da entrambe le parti, sono assolutamente deplorevoli ma, sia quando i palestinesi agiscono in modo pacifico (come nella Marcia del ritorno) sia quando ricorrono alla violenza, vengono uccisi e condannati. In generale, ritengo che tali eventi evochino diverse e complesse emozioni tra i palestinesi e nella società palestinese. Queste emozioni possono includere paura, rabbia, frustrazione, dolore e un profondo senso di ingiustizia, ma anche speranza e orgoglio. I palestinesi hanno vissuto decenni di traumi e sofferenze, le quali contribuiscono all’intensità delle loro reazioni emotive. Le opinioni su Hamas sono diverse: molti la considerano un’organizzazione di liberazione e sostengono gli sforzi di resistenza del gruppo, altri si oppongono alle sue tattiche e temono la vendetta israeliana e le intenzioni genocide. È importante ricordare che i palestinesi hanno prospettive politiche e ideologiche diverse, che possono variare significativamente in base a fattori come la geografia, le differenze generazionali e le esperienze individuali. L’opinione pubblica può inoltre mutare in risposta all’evolvere delle dinamiche della lotta e degli sviluppi internazionali. 

Come si riverbera tutto ciò sulla vita dei cittadini palestinesi e sulla coesistenza precaria tra arabi palestinesi, arabi israeliani ed ebrei israeliani in luoghi di convivenza come Gerusalemme?
SJ Gli eventi violenti si riflettono profondamente nella vita quotidiana dei cittadini palestinesi, colpendoli su vari livelli. Questo impatto non si limita agli abitanti di Gaza e della Cisgiordania, si estende alle aree con popolazioni miste, come i gerosolimitani e i palestinesi con cittadinanza israeliana. Gerusalemme è al centro di tutto questo ed è stata un punto focale delle tensioni, a causa dei siti religiosi e dell’accesso alla Città Vecchia. In ogni caso, la coesistenza è un mito che non regge alla minima tensione politica. Per gli israeliani, i palestinesi sono tutti schiavi. Non c’è coesistenza possibile tra occupante e occupato, tra il popolo eletto da dio e gli indigeni disumanizzati, demonizzati o invisibili della Palestina occupata: il popolo eletto si sente in diritto di appropriarsi della loro terra. Nel migliore dei casi, i palestinesi sono controllati da posti di blocco, chiusure di strade e operazioni militari. Nei momenti di maggiore tensione e violenza, vendette e ritorsioni si diffondono a macchia d’olio. Nel mio quartiere a Gerusalemme, Beit Hanina, i giovani vengono brutalmente picchiati se sorpresi a guardare il telegiornale oppure ad ascoltare le canzoni nazionali. I nostri colleghi e le nostre controparti israeliane, di solito amichevoli, spesso ci provocano nelle discussioni per estorcerci una condanna nei confronti della resistenza; se ci asteniamo, questo ci sottopone a etichettature e ritorsioni. Alcuni professionisti hanno anche perso il lavoro perché bollati come “simpatizzanti di Hamas”. 

Che cosa rappresenta la Striscia di Gaza per i palestinesi della Cisgiordania e per i profughi sparsi nel mondo e qual è il limite tra volontà di vivere e disponibilità a morire?
SJ Gaza ha un forte significato simbolico per i palestinesi, gli arabi e le altre nazioni che lottano contro l’oppressione e la colonizzazione: è la lotta di Davide contro Golia. Ogni due anni Israele dichiara una guerra e demolisce massicciamente edifici, scuole e ospedali per annientare la resistenza, che ogni volta ne esce più forte e determinata. In arabo Gaza significa “punta” e, metaforicamente, è la punta nella laringe dell’occupazione. Gaza è anche il simbolo del sumoud palestinese, della fermezza, della resilienza e della determinazione di fronte alle avversità. Gli abitanti di Gaza sono percepiti come tenaci nel perseguire il loro obiettivo di autodeterminazione e giustizia. I palestinesi della Cisgiordania e della diaspora nutrono spesso un profondo senso di solidarietà nei confronti dei palestinesi di Gaza, li vedono come difensori in prima linea della causa. La situazione della Striscia rafforza il senso di unità e l’impegno condiviso per il riconoscimento dello Stato palestinese e del diritto al ritorno dei rifugiati. Per quanto riguarda la volontà di vivere e la disponibilità a morire, è essenziale affrontare questo argomento con sensibilità. I palestinesi, come le persone di qualsiasi altra comunità, apprezzano la vita e lottano per un futuro migliore per sé stessi e per le loro famiglie. Il concetto di “disponibilità a morire” non deve essere ridotto alla volontà di compiere atti di violenza, ma deve essere inteso in un contesto più ampio: come lotta per la libertà e per una vita dignitosa. Molti palestinesi si sono impegnati nella resistenza nonviolenta quali le proteste pacifiche, l’advocacy o la disobbedienza civile nel tentativo di portare avanti la loro causa. Questo riflette un impegno a cambiare senza ricorrere alla forza, eppure tutti questi tentativi si sono scontrati con la violenza israeliana: quanti manifestanti sono morti durante la Marcia del ritorno? L’obiettivo finale dei palestinesi è quello di garantire un futuro migliore a sé stessi e alle generazioni a venire caratterizzato da pace, libertà e dignità. La volontà di compiere sacrifici è spesso guidata dal desiderio di raggiungere quest’obiettivo. 


intervista raccolta intorno il 20 aprile 2020 per un lavoro collettivo di Kosmopolis. foto di Francesco Delia.

Sono molte le reti di mutualismo autogestite che si sono formate in questo periodo. Io seguo quella dello Sgarrupato e il D.A.M.M. che per lo più interviene nelle aree di Montesanto e Quartieri Spagnoli e segue qualcosa come 350 famiglie a settimane. È composta in parte da attivisti politici e poi veramente c’è tanta società civile, dal cantante lirico al meccanico al tassista che non sta lavorando. Poi c’è l’Ex Opg che sta seguendo i quartieri di Materdei e Sanità. La brigata Vincenzo Leone che segue la zona della Ferrovia e Case Nuove ed è di supporto alla comunità senegalese. L’Area Flegrea Solidale opera a Bagnoli e La Ban segue i campi Rom a Scampia. Altri come il Gruppo di Responsabilità Popolare prepara pasti per i senza fissa dimore. Questo spaccato di società è la parte più bella di questa storia di merda che stiamo vivendo. Ma questa narrazione non può essere un alibi per chi non si prende le proprie responsabilità soprattutto sul piano istituzionale.

A metà aprile Napoli è stata la prima città a vedere un presidio dinanzi la Prefettura in pieno lockdown.

Molti temevano una reazione aggressiva da parte delle forze dell’ordine ma ho registrato un grande imbarazzo dei responsabili dell’ordine pubblico alla prefettura, del resto noi lo abbiamo detto chiaramente che se avessimo avuto la volontà di interrompere l’ordine pubblico bastava comunicare alle quasi millecinquecento famiglie che supportiamo che non avremmo retto più con la consegna della spesa sociale e che si sarebbero dovuti rivolgere alla Prefettura. Siamo andati a lanciare un allarme: c’è urgenza sull’intervento sul reddito non può essere una tantum di un mese. Si vive in una sistematica schizofrenia, da una parte si parla di una crisi epocale che durerà negli anni dall’altra si pensano solo a misure estemporanee che sembrano solo voler garantire il controllo sociale in questa fase. Quindi abbiamo esposto il problema del reddito. L’estensione del reddito di cittadinanza è la forma più praticabile nell’immediato e poi c’è la necessità di un intervento sugli affitti che non è il bonus che a suo modo garantisce la rendita della spesa pubblica. In Italia storicamente la rendita dei proprietari di immobili cresce da quando è stata abbandonata ogni politica sulle case popolari e da quando si è sacrificato l’equo canone. Il bonus affitto raggiunge una platea piccolissima, il fondo regionale per quanto raddoppiato da De Luca copre si e no le domande arrivate alla regione ai primi di marzo e in generale non risolve il problema. Stiamo precipitando in una economia molto più povera e c’è bisogno di un provvedimento che rimetta in discussione la 431/98 e rintroduca forme di regolamentazione degli affitti anche nel mercato privato. Altrimenti si ha un effetto devastante, alla pandemia sanitaria verrà poi la pandemia di sfratti. Abbiamo notizie di una cinquantina di casi riguardanti persone che sono riusciti ad ottemperare il pagamento di marzo ma non riusciranno ad aprile. La stima che faceva il fatto Quotidiano di 200mila morosi in Italia credo sia una sottostima, marzo è stato il mese del compromesso con i padroni di casa , il mese del: ci vediamo ad aprile; ora va capito la struttura del mercato privato delle case in locazione. Si parla spesso del povero padrone di casa, ma in realtà secondo l’Istat la casa in affitto di piccoli proprietari appartiene solo al 30% patrimonio immobiliare privato, e solo per l’8% rappresenta una entrata costitutiva per la costruzione del reddito. Quindi spesso si tratta di multiproprietà o di grande proprietà immobiliare, il piccolo proprietario tende ad adattarsi alle esigenze dell’inquilino per non perdere la rendita e quindi conviene a una soluzione comune mentre la grande proprietà mira a non fare abbassare l’offerta. Se il mercato crolla il loro atteggiamento sarà quello di mantenere le case vuote. Assistiamo a reazioni scomposte come quella dell’Arciconfraternita dei Pellegrini, proprietari di qualcosa come settecento appartamento tra Quartieri Spagnoli e Materdei, immobili affidati per il rinnovo degli affitti a società immobiliari quindi pretendono sette, ottocento euro al mese a casa che prima erano date ad equo canone.

l’affitto o la spesa

Una delle nostre attiviste è ad esempio sotto sfratto dai Pellegrini, hanno perso il lavoro nero entrambi e non so percettori dei bonus spesa perché ha un reddito di cittadinanza di 40 euro che aveva conservato in quanto credeva che gli avrebbe dato accesso tramite i centri dell’impiego a una proposta di lavoro regolare. Ci sono criteri discutibili emessi dagli enti locali, chi ha una pensione sociale di 400 euro non ha diritto ad alcun bonus e se prima aveva un parente a nero che contribuiva adesso fa letteralmente la fame perché deve scegliere se pagare l’affitto del basso nel quale vive o il pasto. C’è una platea di clandestini sociali i quali le istituzioni a parole dicono di farsi carico, le domande sono respinte a oltre mille persone che non sono residenti non perché vivono altrove ma perché sono baraccati e hanno perso la casa e sono vittima della legge Lupi. Si ignora chi vive a nero nelle case private, un fenomeno qui a Napoli assolutamente diffuso. Poi c’è chi ha affitti da settecento euro al mese perché ha dei figli e con un lavoro perso diventa dalla sera alla mattina una famiglia monoreddito ed entra nel bivio tra la casa e il piatto a tavola. Così come chi è in cassa integrazione e prende il 70% del reddito e non si vede dalla Arciconfraternita dei Pellegrini l’abbassamento corrispettivo del fitto di casa. Viviamo in un momento dove le statistiche sulla povertà non riescono a fornire un quadro reale dell’effettivo dramma patito.

intervista raccolta venerdì 17 aprile 2020 per un servizio fatto con Maria Tavernini per TRT World.

L’8 marzo 2020 una delibera della Regione Lombardia decretava le residenze per anziani luoghi Covid.

Una scelta da un punto di vista clinico medico assolutamente ingiustificabile. L’8 marzo oltre ad essere stato identificato il virus e le sue vie di trasmissione avevamo in tutta evidenza dati su come il virus colpisse le persone fragili, sapevamo che i decessi erano soprattutto nella terza età con persone sopra i settant’anni. Quindi sapevamo bene che la popolazione delle Rsa fosse la la vittima designata del virus. Che alcune Rsa l’abbiano fatto perché incentivati dalla quota pagata per ogni ospite (150 euro al giorno per ogni paziente Covid ospitato) è inacettabile. Anche perché nelle Rsa non ci sono solo gli ospiti ma anche il personale, questo abbandonato a se stesso e senza i dispositivi di protezione individuale.

È opportuno a questo punto che la sanità pubblica sia gestita dai governi regionali?

Penso che vada rimessa in discussione non solo la delega alle regioni per la sanità ma l’intero modello a cominciare dalla Lombardia che rappresenta la punta avanzata delle privatizzazione del servizio sanitario. Il 40% della spesa sanitaria pubblica corrente finisce alla sanità privata qui in Lombardia. Abbiamo quindi un comparto privato esteso e abbiamo introiettato all’interno della sanità pubblica la logica del privato. Abbiamo fatto prevalere gli obbiettivi dell’interesse privato anche nella sanità pubblica, quindi l’obbiettivo di ottenere profitti a fronte di un investimento di banche, fondazioni e multinazionali. Quanti più clienti, quindi malati, quindi persone da curare, ha la sanità privata tanto più si apre l’opportunità di fare soldi. Il cittadino viene considerato come cliente e come merce. Ne consegue che per la sanità privata la prevenzione non ha senso ed entra in contrasto con i propri interessi. Se la prevenzione ha l’obbiettivo fdi are sì che i cittadini non si ammalino per la sanità privata rappresenta la diminuzione dei potenziali clienti. Se la sanità sostiene una campagna di prevenzione lo fa per un calcolo preciso di marketing. Quindi la sanità privata è tutta centrata sulla cura, ma anche lì sceglie bene dove investire e infatti insiste molto poco sul pronto soccorso e sull’emergenza e prova vivace interesse invece per le malattie croniche, per la chirurgia e la cardiologia perché su questi fa profitto. Dall’altra parte c’è la sanità pubblica che dovrebbe invece puntare sulla prevenzione, perché se fai un lavoro di prevenzione fatto bene diminuiscono le persone che evolvono verso una patologia, risparmi le funzioni di cura e così guadagni rieorse per il sistema generale.

Cosa è accaduto invece in questi anni?

Che la struttura della sanità pubblica dopo venti anni di governi liberisti qui in Lombardia è lo strumento affinché venga introiettata e possa issarsi la sanità privata. È avvenuto distruggendo ai minimi termini tutti i servizi sul territorio: ambulatori, poliambulatori, presidi di prossimità. Adesso la parola magica è accorpare, cioè tagliare. Sono quasi scomparsi i servizi di prevenzione, ridotti alle vaccinazione e al controllo degli alimenti. Servizi di prevenzione sui luoghi del lavoro sono ormai inesistenti. La medicina del lavoro è una attività privata fatta da liberi professionisti a partita iva. Alla medicina pubblica resta solo la sorveglianza sanitaria, ma con i tagli ai personali resta da fare davvero poco. È stata sacrificata anche la rete dei medici di famiglia, uno screening permanente che ci invidiano in tutto il mondo su tutti i cittadini, migranti regolari e irregolari e bambini che devono essere iscritti a un medico o a un pediatra personale. Una rete diffusa su tutto il territorio che conosce spesso la storia personale di ogni persona, la sua condizione familiare e sociale, rapporti spesso basati su un rapporto di fiducia, questa era la prima linea che andava difesa. Si usa il paragone con la linea di trincea della prima guerra mondiale, nel caso nostro la prima linea è stata smantellata. Chi doveva sostenerli i medici di base li ha abbandonati a se stessi, non hanno ricevuto istruzioni e dispositivi di protezione individuale. La lettera che annuncia loro qui in Lombardia la disponibilità, del tutto insufficiente, di dispositivi arriva 13 giorni dopo il primo caso di Codogno. La gran parte di questi medici di famiglia si infetta e perdiamo una parte importante del nostro bene comune collettivo, purtroppo i medici si infettano in gran numero. Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega, ebbe modo di dichiarare durante lo scorso agosto quando era ancora sottosegretario di governo, che la funzione dei medici di famiglia era superata, se un cittadino necessitava di una cura cercava su internet uno specialista. Questa prima linea invece andava considerata come una struttura frangiflutti, con il compito di smantellare e attutire l’urto di una onda improvvisa sulla terra.

Poi che è successo?

L’onda del Covid 19 ha sbattuto sulle strutture ospedaliere, e cosa ha trovato? Servizio sanitario pubblico sottoposto a un taglio di migliaia di posti letto, con un indice di posti letto sulla popolazione inferiore a quello di tutta la popolazione europea occidentale. Con un numero di posti letto nei dipartimenti di emergenza assolutamente ridotti. Su cento ospedali pubblici il 60, 70% ha il pronto soccorso, su cento ospedali privati nemmeno il 30% ha il pronto soccorso perché questo settore non produce profitti. In questo scenario la Lombardia non ha le competenze e le relazioni scientifiche per sviluppare reti epidemiologiche, hanno lo strumento del tampone ma hanno sbagliato l’approccio.

Come è possibile che non si riesca ad avere una strategia sui tamponi?

Perché è come se si svegliassero tre amici al bar e si domandassero ogni giorno che strategia adottare. C’è una scienza che ha delle specialità, si fanno esami di statistica e medicina preventiva. Non ha senso fare i tamponi solo a chi ha una sintomatologia avanzata e con tutti e tre i sintomi già conclamati. I tamponi andavano fatti anche a coloro che avevano linee di febbre o poca sintomatologia e poi ai loro contatti al fine di inseguire il virus. Abbiamo assistito a un atteggiamento di arroganza che considera la medicina di prevenzione primaria e territoriale di serie zeta, approccio dovuto a una mancanza culturale.

Quindi i dati regionali e nazionali valgono ai fini scientifici quanto l’estrazione del lotto?

Una buffonata fare andare in onda i dati regionali e nazionali, insignificanti e inutilizzabili per ogni tecnico privi di una qualsiasi logica di previsione. Viene data ogni giorno la percentuale misurata sul numero di casi positivi registrati fino a quel momento. Una assurdità: è evidente che se è il numero dei positivi ad aumentare i nuovi casi rappresentano sempre una percentuale minore. Se tra un mese i casi totali saranno centomila dei nuovi mille diremmo che aumentano di un solo centesimo. Un conto per ingannare gli insipienti e che permette di far scrivere ai giornali che la potenza del virus diminuisce, ma questo senza una prova scientifica credibile. Vengono spesso forniri i dati dei tamponi positivi senza un corretto calcolo dei tamponi realizzati, ogni regione poi ha una strategia diversa dall’altra. Per vedere come sta andando l’epidemia l’unico calcolo rimasto utile è il conto dei decessi, ma non dei decessi Covid19, sono una marea i deceduti per Covid19 ai quali non è stato fatto il tampone e non risultano nelle statistiche. Ma va tenuto in considerazione il conto dei decessi totali e vedere se diminuisce nei giorni sperando che vada avanti nei giorni e poi confrontarli tra la media dei decessi di questo periodo rispetto i 4, 5 anni precedenti.

Quindi di fatto nessuna azione per misurare l’andamento dell’epidemia.

Non viene fatto nessuno studio epidemiologico, che è una scienza con fior fori di professori che saprebbero organizzare un campione stratificato per età, dati sociali, patologie pregresse, saprebbero disporre i tamponi e vedere la reale diffusione del virus. Qua ci muoviamo come se la sanità pubblica non esistesse e si va a tentoni, con tutti i disastri che ne conseguono.

Interviste sul taccuino sono la sbobinatura sommaria ma completa di interviste realizzate per servizi giornalistici.
Questa intervista, a un medico che ha preferito restare anonimo, è stata raccolta insieme a Maria Tavernini per un servizio su TRT World

Dottore, con quali criteri attuate il triage, ovvero la scelta di quali pazienti ospedalizzare e quali no?

Una domanda complessa, bisogna rispondere su due piani: “sul quadroi clinico” sarebbe nelle condizioni normali il parametro più corretto, adesso il criterio è “quanti posti abbiamo”. Si pone un grande problema etico, al paziente prestiamo cura o accoglienza? Scegliamo da subito chi curare e quindi chi non curare relegando a maggiori possibilità di morire. Fare tutto per tutti non è più possibile. Già al pre-triage, quando avviene la distinzione tra pazienti polmonari e pazienti non polmonari compiamo la scelta. In questo momento nella mio ospedale pazienti senza complicazioni polmonari non ci sono più. Abbiamo solo pazienti con problemi respiratori che hanno il primo accesso al pronto soccorso internistico. Qui i medici sanno che al momento in ospedale su 210 posti letti possibili ne ha due liberi, arrivano tre pazienti che meriterebbero il ricovero e al terzo paziente cosa si fa? Ci si sta ponendo questo problema etico assolutamente importante, e per certi versi stressante.

E il terzo su quale criterio lo escludete?

Su chi ha meno comorbidità a prescindere dall’età. All’inizio il criterio era l’età: hai ottanta anni? preferivo trattare e davo la precedenza a un sessantenne. Ma adesso non possiamo fare più nemmeno così perché i posti di osservazione sono finiti, i posti di trattamento sono assolutamente finiti quindi la presenza di comorbidità e il quadro clinico del paziente sono criteri che ti aiutano perché forniscono margini di scelta. Quindi il paziente diabetico, o il paziente cardiopatico, o ad esempio un obeso che ha meno probabilità di sopravvivere se affetto da una polmonite interstiziale a fronte di un altro paziente magari più vecchio ma con un quadro clinico generale splendido, senza altre patologie, allora io ho maggiori probabilità di tirar fuori dal problema questo ultimo paziente, quindi l’altro aspetta. Ci si può organizzare, in alcuni casi il paziente molto grave viene intubato ma lo puoi tenere così solo 24 ore e poi gli devi trovare un post, gli hai dato 24 ore di possibilità ma dopo non puoi più seguirlo. Considerate che abbiamo mandato molti pazienti in altre province e in altre regioni, alcuni anche in Germania.

È come se la politica del male minore avesse fatto breccia in un campo moralmente scevro come la cura.

Preferisco parlare di effetti collaterali, c’è una guerra che richiede determinate condizioni e tra gli effetti collaterali c’è che adesso non trattiamo chi ha un infarto acuto. Tutte le terapie intensive di cardiologia sono attualmente impegnate per il trattamento Covid quindi chi ha un infarto non ha cura. Un altro effetto collaterale è non riuscire per tempo fare interventi a pazienti oncologici. Manderemmo, avremmo mandato, manderemo, dipende anche da questioni burocratiche, insomma dovremmo mandare i nostri pazienti oncologici all’Istituto Nazionale dei Tumori, ma la nostra struttura amministrativa non si è preoccupata fino all’altro ieri di avvisare quell’istituto. Quindi noi avvisavamo i nostri colleghi di quell’ospedale ma ci muoviamo sul piano del favore personale, senza nessun atto amministrativamente riconosciuto. Ci sono condizioni che richiedono una urgenza respiratorie e altre cose che non possono essere trattate.

Quale è l’umore tra gli operatori sanitari?

Queste cose vengono vissute male dagli operatori sanitari, è chiesto a noi medici di decidere della vita delle persone. Ci sono vari gradi di sostegno alla respirazione: la mascherina o gli anelli nasali che consentono di somministrare un po’ di ossigeno al paziente, c’è una seconda mascherina dotata di un reservoir che tiene l’ambito respiratorio piuttosto ricco di ossigeno, c’è poi una terza fase la cpap che crea una pressione positiva che permette all’ossigeno di entrare, poi c’è l’intubazione vera e propria. La cpap viene fatta con dei caschi cilindrici, chiusi e adattati alla clavicola dentro al quale viene messo il paziente e l’ambiente è assolutamente ricco di ossigeno, ma per tenerli gonfi c’è bisogno di aria compressa. E non tutte le postazioni ospedaliere sono munite di bocchettino per l’aria compressa e uno per l’ossigieno. Altri pazienti, quelli con un tubo per la gola, devono avere i caratteri vitali monitorati costantemente, e non tutte le postazioni letto hanno la presa di corrente o i monitor che consente di allacciare le apparecchiature necessarie per questo monitoraggio. Non è una questione solo di software ma proprio di carenza infrastrutturale dei nostri ospedali, e anche questo è un criterio per scegliere quanti pazienti trattare e quanti no. Questa situazione, la continua costrizione a questo tipo di decisione vengono vissute male dagli operatori sanitari, è chiesto a noi medici di decidere della vita delle persone.

Siete protetti, come state messi a Dpi (Dispositivi di Protezione Individuali)?

Secondo le indicazione dell’OMS ci sono vari gradi di protezione a secondo della vicinanza al paziente. Se devi svolgere manovre che consentono la dispersione di goccioline di flügge, ovvero quei veicoli di trasmissione dell’infezione, devi avere un dispositivo specifico. Dispositivo che all’ospedale di Milano ora è arrivato ma che altrove è ancora insufficiente.

intetvista per The Spark del 14/2/2020
Per il piccolo commercio, quello dall’esiguo profitto e della molta cura, il momento è a dir poco complicato. Di questa categoria fanno parte anche le librerie indipendenti, quei luoghi intenti a proporre ai lettori una offerta non omologata da una distribuzione che fa degli scaffali un perenne outlet. E nei momenti difficili, è risaputo, si va alla ricerca del confronto con chi di esperienza ne ha da regalare. Così Raimondo Di Maio, libraio ed editore di Dantes&Descartes risponde ad una nostra telefonata alle 15.30 di venerdì 13 marzo 2020 di un anno bisesto nel bel mezzo di una pandemia.

Come stai?
Eh… non c’è male!

Sembra che le fragranze da toeletta e i cavi da pc siano preferiti dal governo al libro delle librerie.
Leggevo Simonetta Fiori su Repubblica dei librai che si ribellano, ma come saprai per strada non c’è nessuno. È una situazione imbarazzante e non sappiamo dove andremo a parare. Ora è il tempo del coraggio ed è necessaria una buona predisposizione per affrontare i problemi che ci saranno. Ma tocca non fermarsi e io correggo le bozze dei prossimi libri che editeremo, ripongo quella attenzione necessaria per arginare la sciatteria dilagante che confonde l’editoria con la produzione di soli oggetti di immediato consumo. Lo faccio con piacere, con passione e non come doveroso dovere. Rileggo adesso per l’ennesima volta fino ad impararla a memoria la bozza di “Napoli porosa” di Asja Lacis e Walter Benjamin, un testo non reperibile nella produzione editoriale tedesca, francese, inglese e spagnola del filosofo e scrittore.

Non ti manca il rapporto con quei perpetui avventori che caratterizzano le giornate di un libraio?
Ho appena mandato degli stralci di un volume altrimenti irreperibile ad un intellettuale che sta scrivendo un volume su Domenico Rea, ad un altro ho mandato altro materiale, siamo una sorta di bibliolibrai per chi non riesce a fare a meno delle proprie passioni e del proprio lavoro.

È un servizio che possono fare le librerie, la loro molteplicità, non certo l’e-commerce.
Lo stato italiano, come gli stati europei, hanno deciso che Amazon potesse non pagare le tasse laddove produce profitto. Non è un problema che scopriamo oggi con questo nuovo e vero stato di eccezione. Certo è che il legislatore ha frainteso l’importanza della profumeria con la libreria, c’è un problema di non necessità del libro, cosa invece necessaria in un paese civile. La debolezza del settore è anche costituita dal panorama editoriale, imprese nate solo per fare soldi e consumi per dividere i profitti con i soci finanziari. Poi capita che un lettore cerchi un classico e questo non si trovi. Siamo un paese che non ha cura del suo catalogo.

Come possiamo resistere?
Bisogna continuare a vendere i nostri libri. Riprenderemo il lavoro da mediatori culturali. E alle nostre autorità voglio domandare: se Amazon può consegnare con i suoi corrieri che sia possibile farlo anche a noi, muniti di guanti e mascherine e con i libri sotto braccio. Che ci facciano uscire dalla clandestinità! Vogliamo essere riconosciuti per il lavoro che facciamo e per il nostro essere sul territorio.
A proposito, ho il deposito da sistemare e in libreria la spazzatura da buttare, speriamo che sia consentito farlo.

intervista apparsa su QCodeMag.it il 28 agosto 2015

Il tempo di incrociare lo sguardio di Ali Lmrabet, di udire una sola amara battura, e ti rendi conto che non sei semplicemente dinanzi a un giornalista dalla vita resa difficile dal proprio lavoro, ma a una specie di contemporaneo Lenny Bruce del Maghreb.

Come nello sketch reso immortale dalla pellicola di Bob Fosse in cui Lenny leggeva, divertito e inorridito, le didascalie del Time sul presunto altruismo eroico di una Jacqueline Kennedy intenta a lasciar il posto alla scorta dopo l’uccisione del marito e non a fuggire per la paura causata da una sparatoria, anche Ali Lmrabet prende di mira la narrazione giornalistica e del potere del suo paese, il Marocco, come dell’Occidente e del mondo arabo.

Lo fa sul suo giornale satirico Demain [Domani], esperienza che gli è costata prima una manciata di mesi di galera per aver paventato la vendita di un palazzo reale di sua maestà Muhammad VI, poi dieci anni di interdizione dal lavoro in patria per aver constatato che i saharawi presenti in Algeria non sono ostaggi di quel paese, ma profughi riconosciuti a livello internazionale e, infine, il ritiro della carta d’identità e il mancato rinnovo del passaporto per la continuata e recidiva attività di satira.

Ospite a Napoli della rassegna Imbavagliati, Ali Lmrabet si dichiara abituato a tutte le provocazioni e a tutte le domande del mondo. Dinanzi a un uomo così, tanto vale cominciare l’intervista con una domanda cretina.

Perché va sostenendo che in Marocco non vi sia libertà di stampa? Mica parliamo del Libano, dove per ammazzare Samir Kassir si è ricorsi a un’autobomba.

Il Marocco è da sempre differente dal mondo arabo. Se ci paragoni con la Libia, l’Iraq o l’Arabia Saudita generi un equivoco. Siamo l’unico Paese che non ha fatto parte dell’Impero Ottomano, ad esempio. Io non sono arabo, non ho problemi con gli arabi e considero la cultura araba una ricchezza in più del Marocco. Ma se tu ci paragoni al resto del mondo arabo, non hai capito nulla. Sulla libertà di stampa io prendo per buono quello che dice il regime del Marocco, quello che è scritto nella Costituzione del mio Paese: La libertà d’espressione esiste! Io prendo per buono quello che dicono i ministri dell’informazione, della giustizia, dell’interno: il nostro è un Paese democratico che cresce. E io dico: Molto bene! Allora avrò il diritto di avere una rivista e di fare il mio lavoro di giornalista!

Perché ha deciso di ricorrere alla satira per raccontare le contraddizioni del Marocco?

Perché posso descrivere con una caricatura una situazione definita che un docente universitario argomenterebbe con un libro. Con una caricatura soltanto posso dire che il Re del Marocco è allo stesso tempo il discendente del Profeta Maometto, il commendatore dei credenti, la massima autorità religiosa del Paese e anche il proprietario di una catena di supermercati che vende alcool. E l’alcool è proibito dalla religione islamica. Con una sola caricatura, discreta e non provocatoria. Noi non siamo Charlie Hebdo. Con una caricatura piccola dove non appare nemmeno il Re, possiamo raccontare una situazione ben definita e l’ipocrisia della nostra classe dirigente.

La satira è uguale in ogni parte del mondo?

Charlie Hebdo! [ha capito subito dove volevo andare a parare – ndr] Conoscevo personalmente Charb, non posso definirlo amico, ma era una persona con la quale ero molto in contatto. Ero legato a Charlie Hebdo all’epoca di Philippe Val. Conoscevo Cabu e quando andavo a Parigi ero suo ospite. Fu Cabu a darmi l’idea, una volta che mi chiusero in Marocco la rivista Demain [Domani], di aprire Après-demain [Dopodomani]. Sono l’unico musulmano che nel 2006, dopo la prima caricatura del Profetto Maometto, ha mandato loro un fax dove dichiaravo: “Appoggio il diritto fondamentale della gente di esprimersi come vuole!”. Ebbi poi molte discussioni con Charb. Da loro esiste il diritto alla blasfemia e io stimo la Francia per questo diritto. Ben venga allora la copertina su Maometto la prima settimana, la settimana successiva pure, la terza anche, ma se poi anche la quarta, la quinta, la sesta settimana allora significa che tu hai un problema con l’Islam. Già non è più un diritto alla blasfemia ma la manifestazione di un problema con una religione. Lo dico chiaramente, perché ne parlavo con loro: avevano un problema non tanto di anti-islamismo, ma erano anti-musulmani. Per quanto mi dicessero “Nooooo, ma noooo, noi lottiamo contro tutte le religioni” io facevo loro notare che attaccavano più la religione cattolica e musulmana e mai quella ebraica. Qui leggo scritto nelle aule di tribunale “La legge è uguale per tutti”, anche le religioni sono tutte uguali o non lo sono?

Quindi un problema di libertà d’espressione c’è anche da noi? Charlie-Hebdo doveva mettere Maometto ridicolizzato in prima pagina per vendere. Una satira diversa da quella che critica il potere come faceva ad esempio Cuore qui in Italia o come fai tu oggi in Marocco.

Si, lo penso, ma si tratta di una regola normale. Anche al Corriere della Sera vedi segretari di redazione che immaginano il titolo sulle possibilità di vendita. Ma considerato che l’Islam e i musulmani godono di una cattiva fama, e io lo vedo con me, perché quando arrivo a un convegno internazionale di giornalisti guardano la mia borsa sempre con un certo sospetto, hanno approfittato di questa cattiva fama per vendere. Ma non funzionava. Con tutta la storia dell’Islam, del sedere del Profeta in prima pagina, non funzionava. Vendevano ventimila copie a numero. E due pazzi disoccupati nati in Francia, che dell’Islam non sanno nulla tranne aver letto tre o quattro testi integralisti, hanno ammazzato mezza redazione, boom boom boom, e così hanno messo tutti noi in un problema grandissimo e terribile. Tutto questo quando la immensa maggioranza di musulmani, dico immensa, non conosce Charlie-Hebdo e se gli avessero posto il problema della raffigurazione del Profeta avrebbero fatto al massimo una pernacchia. Però due persone nate in Francia, cresciute in Francia, sintomo del problema dell’integrazione in Francia, entrano nella redazione, boom boom boom, e siamo in questo bordello.

Siamo impelagati in un fondemantalismo laicista?

In Francia si. Sia in Svizzera, come in Israele, molta gente parlandomi prendeva le distanze da Charlie-Hebdo. Siamo in una follia laicista. Dopo il massacro alla redazione la polizia ha fermato bambini di sette e otto anni che a scuola dichiaravamo il proprio disappunto per Charlie-Hebdo e inneggiavano agli assassini. Bambini che non sanno cosa vuol dire ammazzare o cosa sia la satira. Siamo in una follia laicista e in una ipocrisia enorme. Parte dei cinque milioni che hanno manifestato a gennaio per la libertà d’espressione in realtà hanno manifestato il loro astio contro i cinque milioni di musulmani presenti nel loro paese. Ma perché non difendono la libertà d’espressione nel mio Paese, in Algeria, in Tunisia, in Libano o in Arabia Saudita? Sapete cos’è l’Arabia Saudita? É lo Stato Islamico rispettabile! Perché non difendete la libertà d’espressione in Arabia Saudita? Per me sta bene, io ho applaudito a quella grande manifestazione a Parigi, ma noi? La nostra libertà d’espressione? Il governo francese non ha mai detto nulla sulla mia libertà d’espressione in Marocco.

A noi dal Marocco arriva una immagine edulcorata: La fantastica Medina di Marrakech, raccontata anche da Goytisolo, le belle donne, il buon clima.

Marrakech è una città marocchina? Io direi di no! È una città francese che io chiamo la nuova Sodoma e Gomorra del mondo arabo. Se cammini nella Medina vedi americani, francesi, politici e giornalisti, in uno stato dentro lo stato. Se vedi un marocchino commettere un crimine morale, tipo andare a letto con un bambino, questo crea sgomento in Marocco come in Francia, ma se è un ministro francese (e io ho il nome) allora non succede nulla. Marrakech non è Marocco. Per vedere il Marocco devi andare in periferia e parlare con gli islamisti, non con gli islamisti al governo, quelli sono islamisti light che con una sedia da ministro sono stati recuperati. Per conoscere il Marocco devi parlare con la gente, entrare nelle loro case e scoprirai non una democrazia, ma una dittatura in babbucce protetta dall’Occidente, dalla Spagna e dalla Francia in particolare. Paesi che permettono a un paese non democratico di sopravvivere forse perché non abbiamo gas e petrolio. Siamo una nazione con la quale si risolve facilmente il problema del Sahara Occidentale. Siamo il primo esportare di hashish nel mondo. Esportiamo ventimila prostitute all’anno nei paesi del Golfo e sono nostre ragazze, e dalla mia regione, Tétouan, esportiamo migliaia di tagliatori di testa che sono liberi di gonfiare le file dello Stato Islamico con regolare passaporto mentre il mio di passaporto non lo vogliono rinnovare per la satira che faccio. Noi siamo campioni del mondo in vendita di immagini esteriori. Siamo un edificio dalla facciata impeccabile, dipinta e rifinita stupendamente, ma dietro questa, l’interno del palazzo è non solo fatiscente. E’ pericolante.

Intervista apparsa su Il Desk il 16 aprile 2014

Truppi ma quando stoni sbagli o lo fa di proposito?
Mi sono fatto l’idea che sbagliare è quando non c’è corrispondenza tra intenzione ed esito. Questo per fortuna per quanto riguarda la parte “canora” del mio disco non si verifica. Ti devo anche dire che non è accaduto nemmeno che in studio mi sia messo dietro il microfono dicendomi “dai, ora stona”.

Quali sono oggi e sono stati in passato i tuoi riferimenti tra i cantautori italiani e stranieri?
Fabrizio De André, Piero Ciampi, Gianfranco Marziano, Paolo Conte, John Lennon, Jacques Brel.

Stai per caso maturando la scelta di fare pezzi più orecchiabili per vivere di sola musica?
Il fatto è che sono convinto che le mie canzoni siano estremamente orecchiabili.

Come va con le aperture agli Zen Circus? Meglio che pascolare nel cantautorato romano? Approposito che pensi del cantautorato romano?

Per ora con gli Zen ho fatto solo l’Alcatraz a Milano ed è andata molto bene, vediamo che succede con le prossime date. Non capisco bene che vuol dire pascolare nel cantautorato romano, ma comunque io non pascolo. Non ho mai pascolato. Non penso niente di specifico sul cantautorato romano in quanto diverso da quello italiano o milanese. In generale, per come è costruita la mia sensibilità, mi colpiscono i singoli.

Sei tra i pochi, se non l’unico, napoletano con riferimenti discreti alla città. Nel video “La Domenica” le zone intorno piazza Vanvitelli sono mischiate con scene di quartieri romane, quasi una Napoli denapoletanizzata come il tuo cantare… insomma che rapporto hai con Napoli e i napoletani e la scena napoletana?

Napoli mi mette in difficoltà, come tutto quello che mi costringe ad entrare in contatto con le viscere indipendentemente dalla mia volontà. Quello dei napoletani continua ad essere il mio sguardo preferito sulla realtà. Riguardo la scena napoletana è un po’ come la domanda di prima: ci sono alcuni artisti a Napoli che stimo molto e da alcuni credo di essere ricambiato. Sul resto non ti so dire granché.