di Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo

Mustafa Barghouti è medico e attivista palestinese. Dirige una Ong che ha 32 équipe sanitarie a Gaza: “Ci raccontano storie terribili, sono esausti”. Nella Striscia sono stati sganciati 30 chilogrammi di esplosivo per ogni abitante, uccidendo almeno 13.500 bambini e lasciandone 20mila orfani. Sugli aiuti dal cielo, spiega, è pura ipocrisia.

Bombardamenti indiscriminati e stragi di civili colpiscono la Striscia di Gaza da cinque mesi; 1,5 milioni di palestinesi sono profughi nella città di Rafah, minacciati da un’imminente espulsione e da una carestia. Gli aiuti umanitari che potrebbero raggiungere Gaza via terra sono bloccati da Israele mentre un quantitativo insufficiente di cibo viene paracadutato dal cielo. Per buona parte dell’opinione pubblica mondiale si stanno toccando nuove vette di disumanità. Ne abbiamo parlato con Mustafa Barghouti, medico e attivista palestinese, segretario generale dell’Iniziativa nazionale palestinese e della Ong Palestinian medical relief society.

Barghouti, gli Stati Uniti hanno proposto un porto galleggiante per garantire l’accesso degli aiuti e aggirare il blocco. Via terra o via mare, Israele decide infatti che cosa può entrare nella Striscia di Gaza, i cui abitanti versano in una gravissima crisi umanitaria. Che cosa ne pensa?
MB 
Ciò a cui stiamo assistendo sono terribili crimini di guerra, un comportamento selvaggio, senza precedenti. Abbiamo a che fare con un governo fascista che è andato oltre ogni livello di rispetto dei diritti umani ma non sarebbe stato in grado di farlo senza la complicità degli Stati Uniti e il silenzio dell’Occidente: c’è molta complicità, e persino partecipazione, ai crimini di guerra contro Gaza. Israele sta bloccando l’ingresso di migliaia di camion di aiuti umanitari, negando l’accesso a quei rifornimenti così necessari per le persone che sta affamando, per le 54mila donne che non possono allattare al seno o le 50mile donne incinte a rischio. Invece di fare pressione su Israele affinché permetta ai camion di passare, distraggono il mondo con questa stupidaggine di paracadutare gli aiuti: la metà finisce in mare o negli insediamenti israeliani, il resto è insufficiente. A causa dei paracadute sono morte sei persone e 12 sono rimaste ferite. È un modo per distogliere l’attenzione dalla realtà, terribile, che gli Stati Uniti consentono. E l’idea del porto non è migliore. Perché dobbiamo aspettare due o tre mesi, così che la metà di coloro che oggi stanno morendo di fame saranno già morti, invece di dire a Israele di lasciare entrare i camion degli aiuti a Gaza? Temo che questo porto costruito da Israele, sotto il suo controllo, sia un modo per consolidare la rioccupazione di Gaza e venga usato per la pulizia etnica del popolo della Striscia.

Sostegno e legittimazione per le aspirazioni palestinesi sono venuti da democrazie recenti ma non dagli Stati Uniti e dall’Europa. La Palestina troverà mai un pieno riconoscimento?
MB
 Sono 30 anni che sentiamo discorsi sulla soluzione dei due Stati e molti dei Paesi occidentali ancora non riconoscono la Palestina. È una tale ipocrisia parlare di questo progetto e poi riconoscere solamente Israele. È davvero ipocrita continuare a dire che gli insediamenti sono illegali e non intraprendere azioni punitive. Quando si confronta la posizione sull’Ucraina con quella sui territori palestinesi occupati si evincono l’ipocrisia e i doppi standard. In Ucraina hanno imposto sanzioni alla Russia e inviato miliardi di dollari in aiuti e attrezzature militari. Nel caso della Palestina hanno spedito tonnellate di esplosivo agli occupanti, all’esercito israeliano, e continuano a parlare del diritto di Israele a difendersi come se questo equivalesse a quello di massacrare i palestinesi. Gli Stati Uniti hanno fornito 28mila tonnellate di esplosivo allo Stato ebraico, che ne ha sganciato in tutto 70mile tonnellate in un’area di 365 chilometri quadrati: 30 chilogrammi di esplosivo per ogni uomo, donna e bambino, il doppio della potenza delle due bombe nucleari utilizzate contro il Giappone.

Metà dei governi del mondo definisce quanto accaduto il 7 ottobre come un atto di terrorismo, mentre l’altra metà come un’azione di resistenza. Con la questione palestinese in cima all’agenda internazionale, il grande assente in questa narrazione è la società civile palestinese in Cisgiordania e una mobilitazione che rappresenti l’evoluzione dell’Intifada. Perché?
MB Non sono d’accordo, penso che la Cisgiordania stia vivendo una nuova Intifada dal 2015, è un tipo diverso di Intifada che avviene a ondate. Come nel 2021 con l’enorme rivolta in difesa di Al-Aqsa. Oggi l’esercito israeliano non può entrare in nessun villaggio senza incontrare resistenza popolare ma quello di Israele è un enorme sistema di oppressione: dal 7 ottobre in Cisgiordania hanno arrestato quasi ottomila persone e ne hanno uccise 440, compresi 80 bambini. Non gli interessa della vita umana. I palestinesi sono pronti a partecipare a qualsiasi forma di resistenza. Uno dei problemi è che la stessa Autorità palestinese continua a impedire la creazione di una leadership unificata.

Che cosa dovrebbe accadere affinché il popolo palestinese possa trovare una rappresentanza e una leadership unita sia a livello politico sia territoriale?
MB Dobbiamo continuare a lottare per una leadership unita, dobbiamo imporla all’Autorità palestinese e abbiamo il diritto di chiedere libere elezioni democratiche, che è l’unico modo per la Palestina di esercitare un cambiamento politico e una riforma democratica. Se ci fossero state le elezioni nel 2021 non saremmo in questa situazione. L’incontro (delle fazioni palestinesi, ndr) a cui ho partecipato a Mosca ha stabilito che, in primo luogo, tutti i partiti devono essere ammessi nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) che è considerata la rappresentante del popolo palestinese. In secondo luogo, abbiamo stabilito gli obiettivi del nostro movimento congiunto: fermare la guerra a Gaza, garantire la fornitura di aiuti umanitari e prevenire la pulizia etnica. Purtroppo la decisione della presidenza di nominare un primo ministro senza consultare altri gruppi non è costruttiva e non si adatta allo spirito condiviso a Mosca. Continueremo a provarci e ci saranno altri incontri per attuare ciò che abbiamo concordato. A nostro avviso, come Iniziativa nazionale palestinese e partito in rapida crescita, l’obiettivo più importante è creare una leadership unificata. Il prossimo incontro sarà probabilmente dopo il Ramadan.

Abbiamo visto fotografie di persone sfollate, senza cibo, senza casa, osservare l’iftar (il pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadanndr) con il poco che hanno. Com’è la situazione a Gaza?
MB È molto, molto triste. Dirigo un’organizzazione medica che conta 32 équipe a Gaza e ci raccontano storie terribili, sono esausti. Una nostra clinica deve visitare 1.200 pazienti ogni giorno e i farmaci stanno finendo molto rapidamente. Non avrei mai pensato nella mia vita di medico che avrei sentito di colleghi che devono amputare o operare un bambino senza anestesia. È orribile: mille bambini hanno perso le braccia o le gambe, 20mila sono rimasti orfani e il numero continua a crescere. La distruzione è incredibile. È la guerra più barbara e selvaggia mai vista. Israele afferma che 30 bambini israeliani siano stati uccisi il 7 ottobre, anche se finora non ho visto i nomi, ma anche se fosse vero, come potrebbe questo giustificare l’uccisione di 13.500 bambini palestinesi? E i leader occidentali che affermano di sostenere la democrazia e i diritti umani, come possono dormire sapendo che Israele -che riconoscono, sostengono e al quale forniscono armi- continua a uccidere migliaia di bambini? Non capisco. O sono diventati totalmente insensibili e non provano sentimenti verso l’umanità, oppure non sono animati da buone intenzioni.

Un’inchiesta di Altreconomia ha rivelato che il governo italiano ha continuato a vendere armi a Israele anche dopo il 7 ottobre. Come considera questa scelta?
MB Sono sicuro che questa decisione è contro la volontà della maggior parte degli italiani, è un comportamento crudele. Il vostro governo deve capire che, se il caso di genocidio passerà davanti alla Corte internazionale di giustizia, sarà ritenuto responsabile di aver partecipato. È una cosa molto grave. Continuare a sostenere uno Stato, un esercito, che commette non solo genocidio ma anche punizioni collettive e pulizia etnica violando il diritto internazionale non solo è vergognoso ma assolutamente irresponsabile e avrà delle conseguenze.

di Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo

Altreconomia 16 febbraio 2024

La scrittrice palestinese Susan Abulhawa, autrice di “Ogni mattina a Jenin”, richiama ciascuno alle proprie responsabilità di fronte a una “disumanità da mozzare il fiato”, trasmessa in “live streaming”. Prendere posizione in una prospettiva decolonizzante è più che mai necessario. Per porre fine all’occupazione israeliana e alla carneficina.

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese-americana nata in Kuwait da genitori resi profughi dalla Guerra dei sei giorni. Da bambina ha vissuto in un orfanotrofio di Gerusalemme prima di trasferirsi negli Stati Uniti, dove vive tutt’oggi. Attivista per i diritti umani, è saggista, scrittrice, poetessa oltre che fondatrice di un’organizzazione non governativa, Playgrounds for Palestine, che costruisce parchi giochi in Palestina e nei campi profughi in Libano. È inoltre coinvolta nella campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (Bds) ed è relatrice per Al Awda, la coalizione per il diritto al ritorno. 

Il suo primo romanzo, “Ogni mattina a Jenin” (Feltrinelli, 2006), è stato tradotto in 32 lingue e ha venduto più di un milione di copie rendendo Abulhawa l’autrice palestinese più letta di sempre. Quel romanzo è riuscito a colmare il vuoto, lamentato da Edward Said, di un’opera letteraria capace di rappresentare -soprattutto su un pubblico occidentale- la tragedia sofferta da diverse generazioni di palestinesi a partire dal 1948, anno della costituzione di Israele, a oggi. Per Abulhawa il romanzo rappresenta un potente mezzo di decolonizzazione e su questa direttrice interpreta la motivazione di autori come James Baldwin e Tina Morrison sull’immaginario della tradizione letteraria araba di autori come Ghassan Kanafani e Elias Khoury. 

Da attivista, nel corso degli anni, sempre in chiave decolonizzante, ha esortato i palestinesi a ricambiare la solidarietà ricevuta sottraendosi a una dialettica esclusivamente euro-anglocentrica, ritenendo le lotte indigene e per la giustizia sociale più forti e autorevoli se condotte insieme, in quanto la liberazione si raggiunge in modo più completo quando si è impegnati in quella degli altri. L’impegno del Sudafrica, che ha intentato la causa per genocidio contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia al di fuori di alleanze meramente geopolitiche, sembra darle pienamente ragione. 

Abbiamo intervistato Susan Abulhawa dopo quattro mesi di guerra, mentre il governo israeliano di Benjamin Netanyahu respingeva la proposta avanzata da Hamas di 135 giorni di tregua con scambio reciproco di prigionieri in vista di un accordo per porre fine alla guerra. Hamas aveva anche chiesto che durante la tregua l’esercito israeliano si ritirasse completamente dalla Striscia di Gaza, proposta giudicata inaccettabile dall’esecutivo di Tel Aviv. Nello stesso giorno il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha lasciato il Medio Oriente spiegando alla stampa che Israele non ha “la licenza per disumanizzare gli altri”. Dal 7 ottobre le vittime palestinesi sono oltre 28.400 e 60mila i feriti.

In “Ogni mattina a Jenin” la biografia di Amal e della sua famiglia condensa tutta la storia contemporanea della Palestina: la guerra, l’esilio, l’appropriazione della terra, il divenire rifugiati. La strategia di Israele su Gaza dopo il 7 ottobre sembra riprodurre tutti questi eventi nella quiescenza delle potenze occidentali, alcune delle quali hanno anche revocato il sostegno all’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite che assiste i rifugiati palestinesi. Come giudica il comportamento di Israele e degli Stati occidentali, Italia compresa?
SA Non c’è nulla di complicato in questa formula. Fin dalla sua nascita, Israele è stato un’iniziativa coloniale genocida nata in Europa tra le élite di ebrei europei che volevano accaparrarsi una fetta della torta coloniale. Indipendentemente dalle loro ragioni, che si tratti di una risposta all’antisemitismo o di semplice avidità, resta il fatto che sono degli stranieri venuti in Palestina con l’intento di allontanare gli indigeni dalla terra e rubare loro tutto quello che avevano. Questi sono i fatti. La narrazione biblica romanticizzata è pura fantasia che non ha alcuna rilevanza nella realtà o nella testimonianza storica e forense. Siamo un popolo indigeno che lotta per liberarsi da questo stato di apartheid basato sulla supremazia ebraica fascista e la storia ci darà ragione. Ci rifiutiamo di andare incontro al destino di altri popoli indigeni del mondo che sono stati vittime di genocidio, spinti ai margini delle loro terre d’origine, delle loro storie e del loro patrimonio. Gli Stati Uniti e gli altri alleati di questo Stato sionista fascista sono stati smascherati per quello che sono: dei mostri imperialisti. Abbiamo sempre saputo che le loro infinite guerre contro l’“altro” non avevano nulla a che vedere con gli alti ideali della democrazia e dei diritti umani. Ma ora l’imperatore è nudo, la loro malevolenza è chiara, affinché tutto il mondo possa vederla sullo sfondo di un genocidio trasmesso in live streaming.

“Siamo un popolo indigeno che lotta per liberarsi da questo stato di apartheid basato sulla supremazia ebraica fascista e la storia ci darà ragione. Ci rifiutiamo di andare incontro al destino di altri popoli indigeni del mondo che sono stati vittime di genocidio, spinti ai margini delle loro terre d’origine, delle loro storie e del loro patrimonio”

La Corte internazionale di giustizia dell’Aia ha ordinato a Israele di adottare tutte le misure possibili per prevenire atti di genocidio, di prevenire e punire l’incitamento diretto e pubblico al genocidio e di adottare misure immediate ed efficaci per garantire i servizi di base e gli aiuti umanitari ai civili a Gaza, ma non è riuscita a dichiarare Israele colpevole di genocidio né a ordinare un cessate il fuoco immediato, come invece aveva chiesto il Sudafrica. Qual è la sua opinione sulla decisione?
SA Il senso della decisione della Corte internazionale di giustizia non è mai stato quello di dichiarare Israele colpevole o meno. Questo pronunciamento doveva essere una misura provvisoria per valutare se vi fosse fondatezza nella causa avanzata dal Sudafrica affinché il processo potesse procedere e in secondo luogo per ordinare misure immediate per proteggere la popolazione palestinese. La decisione della Corte è stata positiva sotto entrambi i punti di vista. I giudici hanno stabilito che le prove indicano un genocidio e che il processo contro Israele procederà. Ci vorranno anni per arrivare a un giudizio e si sapeva fin dall’inizio. Nel frattempo, la Corte ha di fatto ordinato a Israele di fermare i bombardamenti indiscriminati e di smettere di utilizzare il cibo e l’acqua come arma contro i civili. Quindi, questa è stata una vittoria a tutti gli effetti per i palestinesi e per l’intero mondo colonizzato e oppresso.

Oltre a prendere deliberatamente di mira gli ospedali di Gaza, abbiamo assistito a raid ed esecuzioni sommarie anche nell’ospedale di Jenin, senza processo o sentenza alcuna…
SA Questa non è una novità. È solo che i media non hanno mai considerato l’uccisione dei palestinesi degna di nota, a meno che questi non siano riportati come numeri quando sui “giornali” mostrano in maniera puntuale la morte degli israeliani.

“Tutti devono prendere posizione. Non esiste una via di mezzo. Chi tace è complice di genocidio”

Rispetto a vent’anni fa, gli autori palestinesi vengono finalmente tradotti e distribuiti dalle grandi case editrici, anche qui in Italia. Se gli scrittori hanno un palcoscenico e una legittimità internazionale, non si può dire lo stesso dei leader politici o della solidarietà con i movimenti politici. Che cosa deve accadere nella società palestinese e nei movimenti di sostegno affinché tutti possano prendere parte con successo a un processo di decolonizzazione e liberazione?
SA Questo è un momento diverso da qualsiasi altro nella storia umana. Una disumanità da mozzare il fiato è sotto gli occhi di tutti, affinché tutti possano vederla e ascoltarla, e ha portato a galla altri orrori nella consapevolezza popolare, inclusa la tragica situazione di luoghi come Congo, Sudan, Yemen, Iraq, tra gli altri, dove le multinazionali e gli eserciti occidentali stanno scatenando violenze e devastazione per rubare le risorse di altre persone. Tutti devono prendere posizione. Non esiste una via di mezzo. Chi tace è complice di genocidio.

di Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo


Intervista a Suad Amiry, architetta e scrittrice di famosi romanzi come “Sharon e mia suocera”, “Damasco” e “Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea”. Guarda con rabbia ai fatti di Gaza. “La cosa più importante -dice- è togliere a Israele l’impunità concessagli dall’Occidente: nessuno dovrebbe essere al di sopra del diritto”

Da più di cento giorni la Striscia di Gaza è sottoposta a incessanti bombardamenti da parte dell’esercito israeliano. Oltre 25mila vittime, il 40% bambini, un terzo donne, molti gli anziani. Un milione e settecentomila persone, l’80% dei gazawi, ha dovuto lasciare casa e vaga in cerca di un riparo dalle bombe in un fazzoletto di terra che va progressivamente ridimensionandosi. La sanità è al collasso con 32 dei 36 ospedali fuori uso: 180 donne che partoriscono ogni giorno senza anestesia né assistenza, numerosi gli interventi e le amputazioni senza farmaci di supporto nei pochi ospedali rimasti, che versano in condizioni disumane. Nel perdurare della crisi umanitaria, con una popolazione tagliata fuori dai rifornimenti essenziali, l’unico tentativo di far cessare il fuoco lo ha compiuto la Repubblica del Sudafrica, intentando una causa di genocidio contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia. Abbiamo chiesto a Suad Amiry, architetta e scrittrice palestinese di famosi romanzi come “Sharon e mia suocera”, “Damasco” (Feltrinelli) e “Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea” (Mondadori) che cosa ne pensa della situazione attuale.

Amiry, per i palestinesi la causa di genocidio rappresenta una forma di riconoscimento di un torto cominciato nel 1948. Riconoscimento che non proviene da una democrazia liberale occidentale ma da una giovane democrazia che con Nelson Mandela ha raggiunto la fine dell’apartheid nel 1994. Che cosa significa questo per lei?
SA
 Grazie a dio la causa di genocidio non è stata portata alla Corte internazionale di giustizia da una democrazia occidentale: l’Occidente è complice dei crimini di guerra commessi a Gaza. Chi meglio del Sudafrica conosce l’orrore del razzismo, dell’apartheid, della violenza e della distruzione? Chi se non il Sudafrica simboleggia la necessità di porre fine alla supremazia bianca e all’egemonia occidentale? Chi se non Mandela simboleggia la dignità umana e il desiderio di uguaglianza, libertà e giustizia. Chi altri avrebbe potuto difendere con tanta dignità i palestinesi contro lo Stato di apartheid israeliano e chiamarlo con il suo nome? La lotta sudafricana per smantellare uno dei sistemi di apartheid più radicati è sempre stata fonte di ispirazione per i palestinesi. Semmai, il genocidio a cui assistiamo oggi a Gaza è solo un promemoria di dove si posiziona l’Occidente rispetto a Israele e ai suoi crimini.
Non c’è da stupirsi, perché la creazione stessa dello Stato di Israele (che ha portato all’espulsione del popolo palestinese nel 1948) è stata ed è tuttora un progetto coloniale occidentale fallito. Chiedo ai Paesi occidentali: che cosa vi abbiamo fatto noi palestinesi per meritare che ci voltiate le spalle? Che cosa abbiamo fatto al governo italiano, a quello francese, a quello tedesco o a quello britannico per meritare questo? Vi è stato solo chiesto di firmare un appello per il cessate il fuoco per salvare migliaia di civili innocenti e non siete ancora stati in grado di farlo. Vergognatevi. La guerra a Gaza non solo ha messo in luce l’aspetto criminale dell’occupazione israeliana che dura da oltre 76 anni, ma anche l’ipocrisia del mondo occidentale.

Nella sua letteratura la narrazione incrocia diversi periodi storici della vicenda palestinese; in alcuni casi il confronto generazionale avviene nella medesima biografia eppure per molti sembra che la tragedia delle 1.200 vittime israeliane, così come delle 25mila vittime palestinesi sia cominciata il 7 ottobre del 2023. Quale causa legale, quale azione morale e quale iniziativa politica pensa debba essere intentata per rendere giustizia ai palestinesi?
SA 
La cosa più importante è togliere a Israele l’impunità concessagli dall’Occidente: nessuno dovrebbe essere al di sopra del diritto internazionale. I Paesi occidentali devono mettere fine ai loro doppi standard nei confronti di Palestina e Israele. Finché Israele godrà di quest’impunità continuerà la sua occupazione. Come nel caso del Sudafrica, Israele deve essere boicottato e sanzionato dalla comunità internazionale; se non fosse stato per le sanzioni contro i “bianchi” il Sudafrica non sarebbe stato liberato. Gli Stati Uniti e l’Europa dovrebbero smettere di sostenere a parole la soluzione dei due Stati, questa adesione formale sta dando agli israeliani il via libera per continuare ad accaparrarsi più terre e costruire insediamenti. Come successo con la creazione di Israele nel 1947, l’Onu dovrebbe dichiarare uno Stato palestinese sui confini del 1967 e costringere gli israeliani a ritirarsi. In mancanza di ciò il ciclo di violenza continuerà finché persisteranno l’occupazione, l’assedio di Gaza e la costruzione di insediamenti ebraici. State certi che il desiderio di libertà, uguaglianza e indipendenza non scomparirà mai.
Nessuno accetta che gli vengano tolti la casa, i campi, i villaggi e le città con qualsiasi pretesto ideologico, politico o religioso. I palestinesi vogliono porre fine all’ingiustizia che si è abbattuta su di loro dal giorno in cui Israele è stato creato sulla Palestina. Nessuno vuole vivere come cittadino di seconda o terza classe in un sistema di apartheid con supremazia ebraica, dove gli ebrei hanno più diritti dei palestinesi. È ovvio che i vari governi israeliani che si sono succeduti hanno scelto di rubare le terre palestinesi piuttosto che fare la pace. È ovvio se si sceglie di costruire insediamenti ebraici e di trasferire 700mila coloni in Cisgiordania e di dare loro terre palestinesi gratuitamente. I coloni israeliani utilizzano il 90% dell’acqua della Cisgiordania, lasciandone il 10% a tre milioni di palestinesi. La guerra contro Gaza ha dimostrato la crudeltà del governo israeliano e i suoi atti criminali contro i civili: la sicurezza dei civili, il cibo, l’acqua, l’elettricità e le medicine vengono usati come armi contro la popolazione di Gaza. Lo sfollamento di due milioni di palestinesi dalle loro case è un altro crimine di guerra collettivo. Abbiamo bisogno di una soluzione politica, che si tratti di uno Stato palestinese indipendente o della fine dell’apartheid e la creazione di uno Stato con uguali diritti per tutti. Chiamatela Repubblica delle banane o Repubblica dell’anguria, non ha importanza.

Lei ha creduto e preso parte al processo di pace e agli Accordi di Oslo, per tre anni ha partecipato alle delegazioni a Washington. Perché quella proposta di pace non ha avuto seguito?
SA 
Come il tempo ha dimostrato, nessuno dei governi israeliani ha mai voluto riconoscere il diritto palestinese all’autodeterminazione. In altre parole Israele non è mai stata disposta a pagare il prezzo della pace, la restituzione delle terre che occupa dal 1967: Cisgiordania, Striscia di Gaza e la Gerusalemme araba. Nessuno dei governi israeliani che ha negoziato con i palestinesi per 30 anni (1991-2021) ha mai smesso di costruire insediamenti sulle terre occupate. Il che significa che Israele non ha mai seriamente voluto raggiungere una soluzione pacifica. Dopo Camp David, Israele ha previsto l’autogoverno del popolo ma non della terra, ciò che Netanyahu suggerisce anche oggi.
I palestinesi possono amministrare i propri affari civici, i servizi, ma nessun controllo sulla terra, sull’aria, sulle risorse e sulla sicurezza. Netanyahu continua a dire “Non ci sarà nessuno Stato palestinese. La terra tra il fiume e il mare sarà sotto il dominio israeliano”. Noi palestinesi e il mondo dobbiamo affrontare questa dura realtà e agire di conseguenza: senza la pressione della comunità mondiale non ci sarà mai uno Stato palestinese indipendente. E finché gli Stati Uniti e l’Europa considereranno Israele al di sopra della legge, assisteremo solo a ulteriori violenze.

di Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo

Altreconomia . 17 ottobre 2023


I riflessi sulla società palestinese degli attacchi di Hamas e dei bombardamenti israeliani, il destino della coesistenza e il limite tra volontà di vivere e disponibilità a morire. Intervista a Samah Jabr, psichiatra araba di Gerusalemme, scrittrice e presidente dell’Unità di salute mentale presso il ministero della Salute palestinese.

Samah Jabr è una psichiatra araba di Gerusalemme, scrittrice e presidente dell’Unità di salute mentale presso il ministero della Salute palestinese. Attingendo alla sua esperienza clinica e ispirata dal discorso di Frantz Fanon, nei suoi scritti restituisce uno sguardo lucido e disincantato sull’occupazione israeliana e sulla resistenza palestinese. Il suo libro “Dietro i fronti” è stato tradotto in inglese, francese, spagnolo e italiano, ma è in “Sumud” che definisce e riconosce al proprio popolo una capacità di contrastare la sopraffazione, un qualcosa di enormemente più grande della sola resilienza, che non si limita ad uno stato mentale di adattamento. Sono l’esodo, la negazione e il tentato sradicamento a generare pratiche positive di affermazione e sopravvivenza.

L’abbiamo intervistata a cavallo tra gli attacchi di Hamas e la controffensiva dell’esercito israeliano a Gaza, nel tentativo di andare oltre la drammatica cronaca di questi giorni, senza esserne sopraffatti. 

Jabr, quali sentimenti ha scatenato nella società palestinese l’offensiva di Hamas dalla Striscia di Gaza di inizio ottobre.
SJ Non posso fornire informazioni precise sui sentimenti del popolo palestinese ma credo che la maggior parte non sarebbe d’accordo con la parola “offensiva di Hamas”. I palestinesi definiscono ciò che è accaduto il 7 ottobre “resistenza”, che è considerata un diritto umano garantito dal diritto internazionale e un dovere morale per le persone di coscienza che desiderano la libertà. Persone che si sono assunte la responsabilità di rompere le mura della “prigione a cielo aperto” chiamata Striscia di Gaza dopo 16 anni di blocco totale e di attuare per qualche ora il diritto al ritorno dei palestinesi garantito dalla Risoluzione 194 delle Nazioni Unite ma negato da Israele. Osservando i social media palestinesi, si nota ammirazione per il coraggio della resistenza e disprezzo per i tentativi della politica e dei media israeliani e occidentali di isolare questo evento dai 75 anni di storia e occupazione militare israeliana. Come anche definire i palestinesi “terroristi” e “animali” (come affermato dal ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant), o paragonare l’evento all’11 settembre e creare false analogie, come quando si paragona la resistenza palestinese con l’Isis. Le perdite umane, da entrambe le parti, sono assolutamente deplorevoli ma, sia quando i palestinesi agiscono in modo pacifico (come nella Marcia del ritorno) sia quando ricorrono alla violenza, vengono uccisi e condannati. In generale, ritengo che tali eventi evochino diverse e complesse emozioni tra i palestinesi e nella società palestinese. Queste emozioni possono includere paura, rabbia, frustrazione, dolore e un profondo senso di ingiustizia, ma anche speranza e orgoglio. I palestinesi hanno vissuto decenni di traumi e sofferenze, le quali contribuiscono all’intensità delle loro reazioni emotive. Le opinioni su Hamas sono diverse: molti la considerano un’organizzazione di liberazione e sostengono gli sforzi di resistenza del gruppo, altri si oppongono alle sue tattiche e temono la vendetta israeliana e le intenzioni genocide. È importante ricordare che i palestinesi hanno prospettive politiche e ideologiche diverse, che possono variare significativamente in base a fattori come la geografia, le differenze generazionali e le esperienze individuali. L’opinione pubblica può inoltre mutare in risposta all’evolvere delle dinamiche della lotta e degli sviluppi internazionali. 

Come si riverbera tutto ciò sulla vita dei cittadini palestinesi e sulla coesistenza precaria tra arabi palestinesi, arabi israeliani ed ebrei israeliani in luoghi di convivenza come Gerusalemme?
SJ Gli eventi violenti si riflettono profondamente nella vita quotidiana dei cittadini palestinesi, colpendoli su vari livelli. Questo impatto non si limita agli abitanti di Gaza e della Cisgiordania, si estende alle aree con popolazioni miste, come i gerosolimitani e i palestinesi con cittadinanza israeliana. Gerusalemme è al centro di tutto questo ed è stata un punto focale delle tensioni, a causa dei siti religiosi e dell’accesso alla Città Vecchia. In ogni caso, la coesistenza è un mito che non regge alla minima tensione politica. Per gli israeliani, i palestinesi sono tutti schiavi. Non c’è coesistenza possibile tra occupante e occupato, tra il popolo eletto da dio e gli indigeni disumanizzati, demonizzati o invisibili della Palestina occupata: il popolo eletto si sente in diritto di appropriarsi della loro terra. Nel migliore dei casi, i palestinesi sono controllati da posti di blocco, chiusure di strade e operazioni militari. Nei momenti di maggiore tensione e violenza, vendette e ritorsioni si diffondono a macchia d’olio. Nel mio quartiere a Gerusalemme, Beit Hanina, i giovani vengono brutalmente picchiati se sorpresi a guardare il telegiornale oppure ad ascoltare le canzoni nazionali. I nostri colleghi e le nostre controparti israeliane, di solito amichevoli, spesso ci provocano nelle discussioni per estorcerci una condanna nei confronti della resistenza; se ci asteniamo, questo ci sottopone a etichettature e ritorsioni. Alcuni professionisti hanno anche perso il lavoro perché bollati come “simpatizzanti di Hamas”. 

Che cosa rappresenta la Striscia di Gaza per i palestinesi della Cisgiordania e per i profughi sparsi nel mondo e qual è il limite tra volontà di vivere e disponibilità a morire?
SJ Gaza ha un forte significato simbolico per i palestinesi, gli arabi e le altre nazioni che lottano contro l’oppressione e la colonizzazione: è la lotta di Davide contro Golia. Ogni due anni Israele dichiara una guerra e demolisce massicciamente edifici, scuole e ospedali per annientare la resistenza, che ogni volta ne esce più forte e determinata. In arabo Gaza significa “punta” e, metaforicamente, è la punta nella laringe dell’occupazione. Gaza è anche il simbolo del sumoud palestinese, della fermezza, della resilienza e della determinazione di fronte alle avversità. Gli abitanti di Gaza sono percepiti come tenaci nel perseguire il loro obiettivo di autodeterminazione e giustizia. I palestinesi della Cisgiordania e della diaspora nutrono spesso un profondo senso di solidarietà nei confronti dei palestinesi di Gaza, li vedono come difensori in prima linea della causa. La situazione della Striscia rafforza il senso di unità e l’impegno condiviso per il riconoscimento dello Stato palestinese e del diritto al ritorno dei rifugiati. Per quanto riguarda la volontà di vivere e la disponibilità a morire, è essenziale affrontare questo argomento con sensibilità. I palestinesi, come le persone di qualsiasi altra comunità, apprezzano la vita e lottano per un futuro migliore per sé stessi e per le loro famiglie. Il concetto di “disponibilità a morire” non deve essere ridotto alla volontà di compiere atti di violenza, ma deve essere inteso in un contesto più ampio: come lotta per la libertà e per una vita dignitosa. Molti palestinesi si sono impegnati nella resistenza nonviolenta quali le proteste pacifiche, l’advocacy o la disobbedienza civile nel tentativo di portare avanti la loro causa. Questo riflette un impegno a cambiare senza ricorrere alla forza, eppure tutti questi tentativi si sono scontrati con la violenza israeliana: quanti manifestanti sono morti durante la Marcia del ritorno? L’obiettivo finale dei palestinesi è quello di garantire un futuro migliore a sé stessi e alle generazioni a venire caratterizzato da pace, libertà e dignità. La volontà di compiere sacrifici è spesso guidata dal desiderio di raggiungere quest’obiettivo. 


di Alessandro Di Rienzo e Noha Tofeile –

Pagine Esteri – 14 maggio 2021 – Ibrahim Nasrallah è nato nel 1954 da genitori palestinesi che furono sradicati dalla loro terra nel 1948. Autore di quattordici raccolte di poesie e ventidue romanzi la sua serie epica “The Palestinian Comedy” copre 250 anni di storia palestinese moderna. Il romanzo Febbre (in Italia pubblicato con Edizioni Lavoro) è stato elencato da The Guardian come uno dei dieci romanzi più importanti sul mondo arabo. Ha ricevuto il Premio internazionale 2018 per la narrativa araba per il romanzo “La seconda guerra del cane”. Nel 2020 è diventato il primo scrittore arabo a ricevere per la seconda volta il “Premio Katara” con “Un carro armato sotto l’albero di Natale”. In Italia è tradotto anche con il romanzo “Dentro la notte” (Illiso edizioni). Consideriamo Ibrahim Nasrallah l’autore palestinese vivente con la maggior tensione verso l’universale in quanto la sua opera è rivolta ad una unica platea, araba o occidentale che sia. Le domande sono state poste un attimo prima che la protesta di Gerusalemme fosse accompagnata dai razzi su Tel Aviv e missili su Gaza, le risposte sono arrivate un attimo dopo.

Ibrahim Nasrallah, il presidio delle case di Sheikh Jarrah, la rivendicazione del diritto alla socialità fuori la Porta di Damasco, la difesa delle Spianata delle Moschee. Con quali parole racconterebbe l’ultimo mese, il mese del Ramadan 2021, a Gerusalemme?

Tutte le parole convergono e si combinano in una sola: libertà. Noi palestinesi siamo le ultime persone al mondo a soffrire l’occupazione e vogliamo liberarci, vivere come tutti gli esseri umani con dignità e sicurezza e non dover aver paura per i nostri figli. Vogliamo essere rassicurati che il giorno dopo verrà, e che verrà senza proiettili. Qui le persone rivendicano il diritto alla loro patria sotto sequestro e desiderano che i crimini di guerra non continuino senza responsabilità. Le persone manifestano e si ribellano non perché amano la morte, ma perché amano la vita e vogliono che la vita sia l’eredità da lasciare a figli e nipoti.

Come viene vissuto dai palestinesi della diaspora la rivendicazione ad esistere dei propri connazionali a Gerusalemme?

I palestinesi a Gerusalemme non solo difendono se stessi e la loro città, ma soprattutto i valori di giustizia che i palestinesi della diaspora hanno difeso, il popolo del Sud Africa ha difeso, l’Europa ha difeso nella seconda guerra mondiale e che le persone di coscienza ovunque difendono.

Nella mia prima intervista alla stampa, quando ero giovane, 41 anni fa, ho detto: siamo con la Palestina non perché siamo palestinesi o arabi, siamo con essa perché è una prova quotidiana della coscienza del mondo. Questo è ciò che stanno facendo i palestinesi della diaspora e che stanno facendo i sostenitori della giustizia e della dignità umana in ogni dove. Alzano la voce contro i crimini commessi dall’occupazione. Solo la scorsa settimana gli israeliani hanno demolito e distrutto centinaia di case palestinesi, uccidendo più di 60 persone e ferendone altre 1.200.

In “Dentro la notte” battaglie, massacri e espropri si confondono in un onirico flusso di coscienza. Cosa ancora deve accadere nella notte dei palestinesi prima che arrivi l’alba?

Oggi e sempre il palestinese non ha mai sognato niente di diverso dall’essere al sicuro e rassicurato quando mette la testa sul suo cuscino per dormire. Siamo stanchi dei massacri e degli incubi. Alcuni di noi sono nati, vissuti e sono morti assediati da questi incubi e da questa uccisione. Vogliamo sognare cose belle, di un futuro, di bambini che crescono normalmente, sogniamo di crescere i nostri figli senza timori e di piantare i nostri alberi senza preoccupazioni. Persino gli alberi non sfuggono alle forze israeliane, milioni di alberi sono stati tagliati o bruciati. È quello che hanno fatto nel villaggio di Burin, vicino a Nablus, una settimana fa. I coloni hanno bruciato le fattorie e i frutteti del villaggio, come gli ulivi e il resto degli alberi da frutta. L’occupazione qui considera anche gli alberi come suoi nemici, quindi li sradica e li brucia.

La stampa internazionale ha ignorato le cene, le riprese con gli smartphone che rivendicavano il diritto a esistere a Gerusalemme. Non ignoreranno e condanneranno altre forme di resistenza. Siamo complici con la negazione ad esistere dei palestinesi?

Da settantatre anni, il palestinese ha chiesto alle persone di tutto il mondo di capire la sua causa e di vedere lo stesso palestinese come un rifugiato fuori dalla sua terra natia e prigioniero all’interno della patria, come un oppresso contro il quale vengono praticate tutte le forme di omicidio, pulizia etnica, tutte le forme di razzismo. Non sono solo io a dirlo, lo dicono anche tutte le organizzazioni internazionali: Amnesty International, la Corte internazionale di giustizia, le risoluzioni delle Nazioni Unite e le stesse Nazioni Unite.

Ma c’è chi chiude gli occhi, c’è chi non vuole riconoscere la tragedia di questo popolo che da più di cento anni difende la propria patria. I crimini israeliani sono ovunque e a Gerusalemme ci sono crimini gravi contro la Chiesa del Santo Sepolcro e contro la Moschea di Al-Aqsa, contro cristiani e musulmani. Ho scritto un romanzo intitolato “Un carro armato sotto l’albero di Natale” su ciò che hanno fatto gli israeliani contro i cristiani a Beit Sahour e a Betlemme. Hanno ucciso persone in queste due città, confiscato i loro soldi nelle banche, le loro fedi nuziali e gioielli in oro delle donne, hanno ucciso gli animali che danno il latte necessario ai bambini palestinesi.

Nonostante tutto questo alcuni insistono sul fatto di non vedere questi crimini, il palestinese è stanco di questo, stanco della cecità di coscienza ampiamente praticata dai media e dai politici occidentali, quindi i palestinesi si ribellano ancora e ancora per vivere la libertà che le persone vivono ovunque.

Due anni fa chiesi a Marwan Jubeh, libraio dell’unica libreria di Ramallah Al-Jubeh, quali fossero gli autori palestinesi viventi più letti e mi fece solo il suo nome. Letteratura e poesia, la sua, sembrano essere un collante fondativo della nazionalità palestinese. Si assolve a questo ruolo volontariamente o involontariamente?

Scrivere per me è un progetto di vita, anzi, un progetto di esistenza. Quando scrivo, e quando scrivono i palestinesi vogliamo ribadire che esistiamo, che non siamo morti, che non possiamo morire. Ma la scrittura è anche un progetto estetico, vogliamo contribuire allo sviluppo anche della letteratura, intediamo offrire al mondo qualcosa di bello, così come il mondo ci regala qualcosa di bello, così come l’Italia ha offerto Dino Buzzati, Luigi Pirandello e Alessandro Barrico. Vogliamo presentare qualcosa di bello al popolo, e quando le persone leggono i nostri lavori ovunque nel mondo vogliamo che queste persone li apprezzino e li amino, non solo perché ci sostengono, ma perché sono buoni e bei libri.

Sono felice che i miei libri siano letti ampiamente in Palestina e che il gruppo più numeroso di miei lettori sia costituito da giovani in Palestina come all’estero, sono lieto di essere classificato come uno dei più influenti scrittori arabi. Sento che il mio fedele lavoro di scrittura, che dura da più di 45 anni, non è stato vano e che i miei libri influenzano e donano alle persone speranza e amore per la vita.

scritto con Maria Tavernini, foto di Andrea De Franciscis
per The Poilis Project

The global outbreak of COVID-19 has confronted countries across the world with an unprecedented emergency to manage. Focusing on the situation in southern Italy, the article analyzes how the pandemic has revealed lasting structural fragilities and inequalities that are triggering a socio-economic crisis on top of the health emergency.

“Here we survive, we rig-up, we try to move on, in every way we can. It’s already difficult for us to make it to the end of the day, can you imagine what it’s like after three months with no income?” asks Salvatore, 50, as he takes long puffs from a cigarette, filling the air of his living-room with thick smoke. A father of five, he has worked all possible jobs, all of them in the informal sector, since he left school aged 7. Without a formal contract or social security, his name is nowhere to be found in the employment databases. He has done everything to make ends meet: plumber, carpenter, tailor, electrician, mechanic. Before the lockdown, his daily-wage work as a bricklayer was barely enough to put bread on the table. When the lockdown was imposed following the COVID-19 outbreak, his life-line got interrupted and, with no savings at hand, he experienced the hardest time in his life. “We are used to suffering, but this was worse,” he says with a mix of shame and resignation. For many in Southern Italy, the lockdown turned out to be a crisis within the crisis that mainly affected vulnerable and marginalized groups as well as informal workers.

Streets are usually packed and loud in Naples, where life’s hustle and bustle are the main feature of Southern Italy’s biggest city. Laid at the foot of one of the most dangerous volcanos in the world – the majestic Vesuvius, a sleepy giant and yet a constant threat to the inhabitants – the city leans on a tuff halfmoon that encircles the Gulf of Naples, right at the center of the Mediterranean Sea. A crossroad of cultures, Naples fulfils the stereotypes it is associated with: noisy, frantic, dirty. Its old center is a maze of dark alleys separated by wide avenues paved during the “rehabilitation” – the urban regeneration carried out during the unification of Italy and after the cholera epidemics. It is a restless hive of activities with its busy markets, its smells and sounds. During the lockdown days, however, the stillness and silence that reigned in the streets felt unreal – it was as if someone had pressed the pause button.

Despite a propension towards chaos, a bad reputation as rule-breakers and a lower diffusion of the virus compared to the wealthier Northern Italian regions, people in Naples have been strict in obeying the nation-wide lockdownimposed in mid-March in an attempt to curb the spread of the disease. The usually crowded and teeming streets now emptied of people and life had something sinister. People would lean out of the window in despair, as if they were waiting for something to happen – like prisoners waiting for their release. Policemen were deployed at every corner to check on the compliance with the ever-changing Prime Minister’s decrees that, piece by piece, eroded personal freedoms in the name of public health.

After quarantining two “red zones” in Northern Italy, as coronavirus kept spreading, in early March the government imposed draconian containment measures across the country. In the Northern regions – the epicenter of the contagion accounting for most of the cases – the pandemic overwhelmed what was believed to be one of Italy’s most efficient health care systems, which are funded by the State but administered at the regional level. While the socio-economic divide between North and South is rooted in history and stems from structural and infrastructural differences, the pandemic and the longest lockdown in Europe exacerbated it. The North is the economic engine of the country and, even though COVID-19 decimated an entire generation, for the sake of saving the economy many factories never came to a real halt thus helping the virus spread. In Lombardy, the region where Milan is located, the mortality rate was among the highest in the world. It was feared, however, that in the poorer and lesser industrialized South the virus would wreak havoc to the already fragile healthcare system and that the effects of the economic crisis triggered by the lockdown would be more intense and will have deeper consequences. Here people are used to expedients to survive and, as expected, the repercussions for those who were already at the margins of society have been devastating. The pandemic disrupted their fragile survival mechanisms making social inequalities even starker, thus creating new marginalities.

Hidden in the winding lanes of Montesanto district in Naples, there is a two-story building known as Sgarrupato(“crumbling” in the local dialect) where volunteers from the Spazio DAMM and the activism and resistance movement 7 Novembre provided food to some 350 families who were struggling to make ends meet during the lockdown. Maria, wearing mask and gloves, is packing bottles of tomato sauce and other essentials to be distributed in the adjoining Quartieri Spagnoli. “We are unemployed ourselves, but we try to help those who are in need. As public institutions are absent and the parameters to access food stamps are so strict, many people are cut out,” she says as other volunteers gather outside the building to distribute grocery bags to an ever-growing list of families in need. From a small volunteering activity, this grassroots food distribution grew to become a fully-fledged assistance service that helped contain the emergency as well as the risk of criminal infiltrations in the gaps left by the State. The solidarity net in Naples in fact reached a capillarity and efficiency that went way beyond the institutional one. “Many self-managed mutualism networks have come together in these difficult times. They are partly made up of political activists, but also lots of people from civil society, from the singer to the mechanic, to the taxi driver who is currently not working,” explains Alfonso De Vito, who is part of a local housing rights movement. These grassroots mutualism networks – made of too many organizations to name them all – have helped some 2,000 families get by. “This cross-section of society is the most beautiful part of this terrible story – says De Vito – but this narrative cannot be an alibi for the institutions not taking responsibilities.”

With unemployment rates three times higher in the South than in the North and a strong incidence of irregular work, the cash shortage and the bureaucratic slowness of economic aid packages made the risk of social tensions in Southern Italy a concrete perspective. Early into the lockdown, intelligence agencies warned the authorities of “a potential danger of spontaneous and organized riots and rebellions” in the South: due to cash shortage, many families were struggling to fetch a meal, pay the rent and fulfill the most basic needs. “In Naples and its metropolitan area there are segments of the population who live off daily subsistence. In the lockdown phase, this type of economy disappeared completely: people went from an income of 20 euros per day [22 USD], to null. The people working in this segment are the most vulnerable because they cannot benefit from any social safety-net or public welfare,” explains Prefect of Naples Marco Valentini. With government emergency aid packages reaching late and only a fraction of the needy, it was solidarity and mutualism to help people cope with the most immediate need of the crisis: hunger. The city’s response to the socio-economic emergency was an incredibly efficient network of self-organized collectives that provided families with low or no income with groceries and homeless people with a hot meal. This social lifeline was the product of volunteering and grassroots donations.

Besides secular and Catholic organizations, there was also an effective collaboration with the Buddhist and Senegalese communities. Many private citizens also set up to prepare and distribute food to those who could not abide by the rule of #iorestoacasa (I stay home). At noon in Piazza Mercato, a long, ordered queue slithers from the Mensa dei Poveri (soup kitchen). “We are the angels of the epidemic,” says Father Francesco, while Stefano, a yoga teacher, and other volunteers from Responsabilità Popolare are preparing food in the canteen next to the Basilica del Carmine. When the lockdown was announced, many homeless shelters – including showers and lockers – and soup kitchens were shut down out of sanitary concerns. “Before the pandemic, we used to distribute around 150 meals a day, now we prepare 700,” says the Carmelite Father in a rare pause from the fervid kitchen activity. “Food is not a problem, we can manage, but for many it is impossible to follow the basic hygiene rules: it is a sanitary emergency.” Many have resorted to washing in the subway’s toilets. It is an army of people sharing old and new vulnerabilities: homeless, migrants, clochards, but also people made poor by the pandemic. These days, poverty is spreading at a fast pace in different segments of society.

Among the groups relying on food aid there are also the so-called “new poor.” In a situation where marginalities are overlapping and piling up, the lack of cash put many families at risk of losing the roof over their head. Many tenants never formally signed a lease: a widespread malpractice encouraged by owners themselves in order to avoid taxation. Residents without a regular contract were not able to access rent aid measures and are now in danger of losing their homes. “We are falling into a much poorer economy. The risk is that after the health pandemic, there will be an evictions’ pandemic,” warns De Vito from the housing rights movement. “The economy has come to a halt and so has the income for many people. How will they pay the rent when the aid is over?” More than 64,000 rent aid requests were filed in Campania (the region where Naples is located), while 10,000 are the eviction procedures in place and many more are expected later in the year. Three months of cash flow crunch have taken a heavy toll on the population and on the economy. The fear is that criminal organizations could profit from the economic discomfort many families – and businesses – are presently faced with.

Camorra –the organized crime syndicate from the region of Campania and one of the different mafias that exist in Italy like the ‘Ndrangheta in Calabria, the Sacra Corona Unita in Puglia and Cosa Nostra in Sicily – is a complex organized crime phenomenon whose history goes back to the 19th Century. Until the 1980s, the Camorra was mainly focused on controlling the territory through racketeering, prostitution, weapons and cigarette smuggling. Since then, the Camorra has also acquired a significant presence in other European countries due to its role in international drug trafficking. With the 1980 earthquake in Irpinia, the Camorra began to meddle with public funds for reconstruction: the new business consisted in setting up construction enterprises, and then influencing policies by guaranteeing support and bribes to local politicians in exchange for tenders. From the 1980s onwards, the Camorra went transnational – making use of the deregulation imposed by the globalization – making huge illegal profits that constantly need to be re-invested and laundered. Public administrations are also exposed to criminal infiltrations as the aim of the mafias is to manage and convey public money on activities which are relevant to their scope.

Monitoring the many ways in which organized crime adapts to changing conditions is a real priority in a city like Naples. “Here, the risk of criminal infiltrations is a very sensitive issue due to the significant presence of organized crime. Our first worry is to prevent organized crime from providing criminal welfare,” explains Prefect Marco Valentini. “There are ongoing investigations on the role that the Camorra tried to play during the lockdown phase, particularly in the provision of food aid to families in need,” he asserts. Yet, according to the Prefect, the current post-lockdown phase is the most delicate. In terms of prevention, authorities are implementing a number of measures in view of the economic restart in September, considered a critical date. “Since organized crime has considerable cash, it is possible that through new and old usury mechanisms – not only loans but also donations – criminal organizations may take advantage of the difficult situation that small businesses and companies are facing.”

The lockdown costed the Italian economy 47 billion Euro (52 billion USD) each month, 10 of which in the South. Svimez, a non-profit organization promoting the study of South Italy’s economy, foresees that in 2020 the country will face a Gross Domestic Product (GDP) contraction of 9.3 percent: 9.6 percent in the Centre-North and 8.2 percent in the South. A recent study by the same non-profit shows that the North-South economic divide will further deepen during this year: while the costs of the lockdown and the GPD collapse will be heavier in the Northern regions, the Center-North of the country will lose 600,000 jobs and the South 380,000. Hence, the latter – already in recession before the pandemic – will proportionally suffer the greatest impact of the crisis in terms of occupation and its growth will be halved by next year. In the Southern regions there are also the highest rates of poverty and shadow economy, according to data by the national statistical institute. Families living in relative poverty are estimated at just over three million, with the Southern regions of Calabria, Campania and Sicily registering the highest incidence. Shadow economy and informal work are also more present in the South than in the North: Calabria is the region where the weight of the underground and illegal economy is the greatest, with 20.9 per cent of the total added value, followed by Campania and Sicily. In those segments, money has stopped circulating, hence a part of the population has stopped spending.

In July 2o2o, two months after the lockdown has been lifted, streets in Naples are again bustling with people: as life seems to flow back city’s veins, the emergency is far from over. Even though streets are busy again, it is clear that business is not fully back yet. Many restaurants and shops have not lifted their shutters and the cash crisis is palpable. “We have a 50 percent drop in the sales of Margherita pizzas,” states Coldiretti, the association of food producers. “We work mainly with takeaway, but tables are empty,” explains Antonio Improta from Pizzera 22 in the Pignasecca district, one of the oldest open-air market of the city of Naples. “The distance between tables imposed by the institutions has more than halved the seats. Due to the economic crisis, many people prefer to do without eating out.” In a city where restaurants were usually always full, and dining out is reasonably cheap, it is unusual to see them so empty. As pizza consumption acts as a market indicator, numerous restaurants, bars, clothing stores and other activities are also gasping for air. The collapse of pizza sale is a significant warning for a city like Naples: the drastic downsizing of its market is the mirror of a “post-war” economy.

The battle against the virus has often been compared to a war, as if the word pandemic were not enough telling of the emergency many countries have experienced. In the current post-lockdown phase, many analysts are setting parallels with the 1945 post-World War II recovery. The frequent reference to post-war times in the media – despite the obvious differences – has a self-delusional function aimed at encouraging the population and boosting national unity. Yet, while in post-war economy the demand could not find a corresponding offer, the opposite is happening today: goods on offer are available, but there is little cash and even less will to spend it. The fear is that, in an era that has witnessed an unprecedented interconnection and globalization, it will take much longer than in post-war times for economies to recover. United Nations Secretary-General Antonio Guterres said that the “economic impact will bring a recession that probably has no parallel in the recent past.” The shock effect of the COVID-19 emergency also revealed all the flaws and injustices of our societies, worldwide.

In Italy, the economic system runs on two-speeds with the country spit in two: North and South of Rome, the national capital. The lockdown plunged Southern Italy’s absolutely precarious economies into a deep crisis. “Given a widespread cash problem,” says Luigi Cuomo, racketeering expert at Libera, an association working against mafias “today there is both a strong demand and an equally strong supply of loans by organized crime. The reopening [of activities after the lockdown] prompted the need for cash, but the Italian banking system is among the most obtuse and medieval banking systems in Europe. The failure in granting legal credit allows illegal, criminal credit to flourish,” he continues. The Mafia – a term originally associated with the Sicilian Mafia, now often used collectively to include all regional criminal outfits – lends money not only to grow its capital but also to infiltrate legal businesses to launder its own capitals. “All usurers are criminals, but Mafia’s usury is growing at a concerning pace in recent years – explains Cuomo – it not only produces income, but it also infiltrates businesses: it launders illicit capital by putting it back into the legal market, it ousts troubled entrepreneurs by first taking control of the company and then of its ownership.”

The Prefecture of Naples is closely observing the phenomenon. “We are constantly monitoring changes in shareholder structure, or company transfers, or branches of it,” says Prefect Valentini. “Stock markets and transfers are a spy: if data is anomalous it leads to suspicion of a criminal intervention aimed at influencing the life of that company.” Even more than any other business, mafias observe the market trends and adapt to the changing context. During the COVID-19 pandemic, the Camorra also reinvented itself in new sectors: the most important is the business of PPE [Personal Protective Equipment], such as the production of gowns and masks, says Valentini. However, usury is the first resort for an activity in crisis. Usury is also an effective money-laundering mechanism: the social emergency caused by the coronavirus has been a great opportunity in this sense. “By lending money, they [the criminal cartels] risk very little and have huge returns. Today they do not even need to coerce people into their illegal money-lending schemes, victims are already flocking towards them. At first sight, the usurer appears as a comforting figure, the one that comes to help you – says Cuomo – a honeymoon that in some cases can last long, in other cases less. Only then, victims will begin to seek help and report.”

It is too early now to assess the impact of usury during the COVID-19 pandemic, according to former racket victim and judicial witness Luigi Ferrucci, President of the Italian Federation of anti-racket and anti-usury associations (FAI), figures will emerge in the long run. In the last two months the Prefecture of Naples has received 26 reports from entrepreneurs who stood up to oppose criminal harassment and have faced increasing difficulties to reintegrate their companies into the healthy productive fabric of the country. “People who fall into money lending schemes take time before they ask for help. We have introduced a new tool, an online listening desk that allows victims to get in touch with us and talk to our experts. We have to be attentive in detecting new dynamics and this can be done only at the grassroots level.” According to Libera’s Cuomo, the State must think of new loan models, not necessarily through the banking system, “whose strict and inaccessible credit regulations make [the banks] victims of their past mistakes,” he explains, “It is necessary to allow private individuals to lend money [in a regulated manner] in competition with banks, so as to trigger a virtuous mechanism and annihilate usury.”

Time is crucial in this context. “The State must act before Mafia does,” urges Rosario Stornaiuolo of the consumers’ association Federconsumatori. “European aid packages must reach small entrepreneurs before the Camorra lends them money first and then usurps their companies, thus also benefitting from public aid.” It is a call for de-bureaucratization in a country where procedures are often lengthy and complex. Camorra is no longer the same as in the 1970s or 1980s, it has evolved both in scope and reach. “Today it is entrepreneurial, it is run by white-collar, educated people who are able to understand these mechanisms.” Food catering and tourism are the main sectors under observation in Naples after the COVID emergency. “Before COVID, these were driving sectors of the city’s economy,” recalls the Prefect Valentini, “Especially in recent years, Naples witnessed an exponential increase in tourism: these sectors are the most exposed now.” The city center, until recently turned into a touristic amusement park, is spectral these days: all activities related to the tourism business are suffering a lack of customers and are at risk of going bust and could hence easily become targets of criminal infiltrations.

Unlike other entrepreneurial actors, Camorra seems to have an infinite availability of cash that needs to be pulled back into the market. Camorra, though, like every other business, has suffered from the current crisis: its supply chain was partially disrupted and experts agree that usury is the only upward activity to produce hegemony in this context. “We believe the lockdown affected also the criminal economy,” says Libera’s Fabio Giuliani. The lower segments of the drug trade – the open-air drug-dealing markets – and their relative profits suddenly dropped. Fabio Giuliani explains that “the drug-dealing outposts where users buys drugs from local criminal cartels have suffered significant losses, to such an extent that the demands for methadone by people who could not fetch their doses during the lockdown has significantly increased.” Despite the losses, the Camorra is the only big player in the market economy that still has cash availability in a time of recession. “In some districts in Naples the criminal cartels have distributed food aid and handed out money, from 50 to 500 Euro,” explains Fabio Giuliani. “A parastatal welfare aimed at building consensus in a specific territory, Camorra knows how to build strong ties and a solid economy.”

In this unfolding crisis, the mafias are trying to increase their hegemony. Prevention seems to be entrusted entirely to civil society associations engaged in providing assistance against usury. These civic networks represent a great moral asset, but they are certainly not enough at an operational level. “Associations and cooperatives against the mafias are experiencing a great crisis,” admits Fabio Giuliani. “It seems that there are always other priorities. Today, the top priority is revitalizing the economy at any cost. During the lockdown, it was the civil society to keep the boat afloat. The focus is now on recovery, while the social network that has proven crucial during the crisis has been placed on the back burner. Today,” warns Giuliani “Camorra has an even greater infiltration capacity compared to the 1980s,” the years of its last boom and uprooting. A chilling warning for a city that has paid – and still pays – a high price for the pervading presence of organized crime.

articolo apparso su Kulturjam il 6/6/2020

“C’è un pezzo di Africa in ognuno di noi! Chi non beve il caffè, nessuno? Beh buona parte del caffè dei nostri mercati viene dall’Etiopia come buona parte del Té nero viene dal Kenya e dalla Tanzania”. Lasciamo il beneficio di improvvisazione sui dati del mercato internazionale al giovanissimo interlocutore che a Napoli, dinanzi il consolato degli Stati Uniti di America, incita una folla di suoi simili. Sono tanti, tutti giovanissimi, quasi nessuno mai visto prima nelle iniziative di movimento che nella città più importante del Mezzogiorno sono la ossatura portante della cosiddetta società civile. Sono tutti di seconda generazione, chi al liceo e chi all’università, hanno resuscitato i calzettoni a spugna che speravo archiviati negli anni ‘90 e li ostentano con orgoglio, come se dietro Mergellina ci fosse Harlem e come se le Black Panters avessero archiviato in un batter di ciglio la retorica delle incancrenite liste di disoccupati. Non hanno la cittadinanza italiana per via di un conservatorismo dilagante, presente anche nell’azionista di maggioranza dell’attuale governo, ma rappresentano con enorme dignità quel divenire italiano che produrrà uno status quo inoccultabile e che spingerà i nostri governanti a produrre pratiche di apartheid sempre più imbarazzanti.

Sono al primo presidio napoletano per George Floyd, a Roma un migliaio di neofascisti occupa le cronache nazionali mentre qui, dinanzi un migliaio di seconde generazioni di autoconvocati non vi è nemmeno un giornalista locale ma soltanto qualche fotografo.

Lo smarrimento è anche dei movimenti tradizionali, sono in numero inferiore e il proprio inventario semantico risulta improvvisamente desueto.

“Hanno ucciso un mio fratello, un vostro fratello, un fratello dell’umanità di chi ha la pelle nera, bianca o marroncina. Fate una cosa per favore, quando vedete qualcuno prevaricare su un altro perché ha il colore della pelle diversa non giratevi dall’altra parte, difendete la vittima e contribuirete alla giustizia nel mondo”. Sono le fasi salienti di un discorso che di passaggi significativi ne ha parecchi, almeno il triplo di un qualsiasi intervento di un rappresentante di rango di un partito parlamentare. Ha si e no vent’anni, ha la pelle nera e parla un italiano e un napoletano perfetto e mixa gli idiomi con la maestranza di un dj.

“Ho una identità, due identità, tre identità e sempre una identità. Se non capite la mia ricchezza il problema è vostro, la vostra società si salva se con me”.

Mi giro verso i compagni di una vita: ragazzi, il reverendo Al Sharpton è tra noi!!

lavoro collettivo fatto con Francesco Delia e Giuseppe Ottaviano, apparso su QCode il 2 maggio 2020

“Ora e sempre resistenza, non resilienza, resistenza!”, Massimo Ferrante saluta così chi ha voluto festeggiare il 25 aprile con la sua “Bella ciao” in diretta streaming. Un festa della Liberazione che ha visto fermati dalle forze dell’ordine alcuni attivisti delle Reti Sociali per l’Emergenza Napoli che in questi giorni lavora alla più grande distribuzione di generi alimentari della capitale del Mezzogiorno.

Poche persone e distanziate per ogni quartiere hanno aperto striscioni che chiedevano alle istituzioni provvedimenti capaci di supportare tutte le persone, l’universalità del corpo sociale in Italia che, con la quarantena, conta una parte sempre crescente superare il confine dell’indigenza.

“A casa mia siamo in quattro, io e i miei tre figli, e abbiamo perso tutti il lavoro” racconta Titti del quartiere Materdei. “Mia figlia è parrucchiera ed era contrattualizzata ma il datore di lavoro non sapendo come avverrà la riapertura e con quale giro di affari ha ritenuto di licenziare i dipendenti; così anche mio figlio che cercava case da vendere per una agenzia immobiliare gli è stato detto di continuare a lavorare da disoccupato non retribuito se intende avere speranze per una riassunzione; così come l’altro mio figlio che lavorava a nero in un bar e anche io che sempre a nero facevo servizi qua e là per arrangiare”.

Arrangiare, accordare alla meglio, ma non un vestito o una seggiola rotta come suggerisce il Devoto – Oli, qui si arrangia soprattutto la propria esistenza e quella dei propri cari. Da un momento all’altro l’arrangiamento si è interrotto. È proprio in questa crepa che si sono inserite le azioni solidali delle Reti Sociali per l’Emergenza Napoli, iniziative di sostegno rivolte alle tante famiglie escluse dai criteri di assegnazione dei buoni spesa, dalle misure riservate a professionisti e imprese o a chi, come i senza fissa dimora, non individuati in nessuna misura economica governativa, regionale o comunale.

“Ad essere colpiti sono chi già stava ai margini, chi viveva di una pensione sociale e degli espedienti di qualche familiare e anche la piccola borghesia, il famoso ceto medio, sempre più logorato, di due lavoratori con figli che insieme arrangiavano duemila e cinquecento euro con una casa in affitto di settecento euro e nessun risparmio in banca” spiega Alfonso, storico attivista per chi una casa a Napoli non ce l’ha. “Anche questi oggi sono nel dilemma se pagare l’affitto o fare la spesa e se marzo è stato il mese dell’incosapevolezza, aprile il mese del compromesso, temiamo che a maggio scoppi l’emergenza sociale”.

Sono tanti i collettivi di autorganizzazione oggi in rete a Napoli. Nel tentativo vano di citarli tutti ricordiamo lo Sgarrupato di Montesanto e il DAMM – Diego Armando Maradona Montesanto che insieme intervengono anche nei Quartieri Spagnoli e seguono 350 famiglie a settimana; l’Ex Opg che interviene al Cavone, alla Sanità e a Materdei, Il Giardino Liberato anche questo a Materdei, la Brigata Vincenzo Leone impegnata tra la Ferrovia e le Case Nuove, l’Area Flegrea Solidale che interviene a Bagnoli, il BAM a Scampia e il gruppo di Responsabilità Popolare operante su tante zone di Napoli.

Volontari e derrate alimentari sono protagonisti anche tra associazioni cattoliche, cooperative sociali e centri culturali e religiosi di riferimento per le comunità srilankese e senegalese. Una rete di mutualismo che in molti ritengono debba continuare anche dopo l’emergenza.

“Si è messa in moto una solidarietà di vicinato che a Napoli è la parte più bella di questa storia di merda che stiamo vivendo. La sfera della cura ha rotto quell’argine che prima era circoscritto all’ambito familiare e che ora si apre a delle dimensioni di prossimità che non vedevamo dal terremoto dell’80. Speriamo non sia un alibi per chi non si prende le proprie responsabilità sul piano istituzionale”, conclude Alfonso.

A mobilitare e ad assemblare gli animi c’è anche quella categoria di cittadini che non poteva restare a casa: i senza fissa dimora e gli elemosinanti. Dalla sera alla mattina, non hanno saputo più a chi chiedere. Il tempo liberato dal lavoro per molti ha rappresentato l’occasione per mettersi a disposizione degli altri, senza mediazioni, in una delle tante mansioni necessarie per non lasciare soli i più fragili.

Alle 8:30 del mattino la Mensa del Carmine è già un pullulare di persone. Mentre Padre Francesco frulla i pelati, gli attivisti di Responsabilità Popolare preparano 140 litri di ragù alla bolognese che verrà servito già dalle 10:30. Il timore di tutti è che i pasti non siano sufficienti.

“Si tratta di un’assunzione di responsabilità collettiva rispetto a un problema collettivo”, spiegano Luigi e Stefano del gruppo di Responsabilità Popolare. “Tutto nasce dall’esigenza di prendersi cura dei senza fissa dimora rispetto i quali le istituzioni faticavano a intervenire prima del Covid 19 e ai quali hanno chiuso, in ottemperanza alle regole imposte con la quarantena, mense e ripari. Alla chiesa del Carmine nell’omonima piazza si recavano da padre Francesco in trecento ogni giorno per sfamarsi, con la quarantena sono saliti a settecento e la mensa fatica ad accoglierli. Il rischio di contagio nell’assembramento era grande così abbiamo cominciato anche a distribuire pasti caldi
organizzati in gruppi di prossimità. Ci siamo recati nei luoghi dove usano fermarsi per scoprire come il concetto di senza fissa dimora è assolutamente generico, comprende immigrati, tossicodipendenti, chi ha subito un abbandono o una separazione, chi ha perso un genitore che con la pensione garantiva un affitto per tutti, chi ha perso il lavoro. Per i senza dimora che non sono né elettori né consumatori e che nella nostra società storta sono veramente gli ultimi le Istituzioni non hanno fatto quasi nulla, non hanno riaperto le strutture che in tempo di pace funzionavano per garantire la salute e l’igiene minima. Se noi producevamo nelle nostre case centinaia di mascherine dagli assessorati sono arrivati pacchetti con 40-50 pezzi da dare a una mensa che contava almeno 500 persone in fila o al dormitorio dove ci sono 100 utenti che entrano ed escono ogni giorno”.

I problemi legati alla sopravvivenza alimentare riguardano anche diverse famiglie dei quartieri popolari che sopravvivono con lavori in nero, spesso impiegati nel settore del turismo e della ristorazione. Nella piccola sala del centro di raccolta della Comunità Sant’Egidio nel quartiere Sanità si confondono persone che vengono a prendere e persone che vengono a donare. Si assomigliano, non si notano differenze, è palpabile la premura a dare e non lasciare nessuno indietro, sicuri che forse è solo un caso a non essere nell’altro ruolo, costretti a dover prendere.

“Sia io che i miei amici siamo piacevolmente sorpresi dalla mobilitazione grande di singoli cittadini, o dai giovani medici, energie che si riuniscono per rispondere al bisogno delle famiglie in maggiore difficoltà. A sorprendere è la costante fornitura di alimenti da consegnare a chi ha difficoltà a reperirne” racconta Patrizia, responsabile del punto di distribuzione alla Sanità della Comunità di Sant’Egidio. “Spero che questo tempo rappresenti una opportunità per una riflessione sulla vita disumana che abbiamo fatto fino adesso, che sproni un’apertura verso qualcosa di più essenziale che ci può salvare la vita, cioè che evidenzi i legami, la condivisione, la solidarietà”.

“Distribuiamo cibo, indumenti e apriamo le docce per essere vicini a chi è senza casa. Prima la maggior parte degli assistiti erano extracomunitari, adesso ci sono anche gli italiani: gli italiani separati, gli italiani che sono stati licenziati. L’emergenza ha aumentato il bisogno degli assistiti, lo vediamo qui in Caritas dove tutti i giorni vengono per la spesa che noi cerchiamo di garantire, altrimenti questi non hanno proprio di come vivere. C’è gente che arrangiava nel quotidiano: l’ambulante, i parrucchieri, si sono trovati senza niente e senza preavviso” spiega Tina della Mensa Caritas di Santa Brigida. “L’alloggio per me è il problema più importante. Ci sono tanti alberghi chiusi e si potevano alloggiare qui i senza dimora come è stato fatto ad Ischia con il terremoto, anche gli albergatori avrebbero continuato a lavorare e a dare lavoro”.

Questo periodo con le sue strane dinamiche rivela, senza troppe esitazioni, le debolezze e le fragilità di tutti, ma l’attitudine a collaborare e fare rete è pervasiva. Dai dati raccolti dal 15 marzo al 24 aprile dalle reti del mutualismo si contano 1820 famiglie sostenute, 7270 pacchi spesa consegnati, 24242 pasti caldi dati in strada e circa 50mila euro raccolti tramite il crowdfunding. I destinatari di questa mobilitazione solidale sono individui e famiglie non rientrati nel raggio d’intervento istituzionale di Comune, Regione, Governo.

“Assistiamo oggi a Scampia mille e cinquecento persone, un numero crescente considerato il fatto che in molti ci contattano perché mandati proprio dal Comune di Napoli”, spiega Monica del Bam – Brigata di Appoggio Mutuo. “A dimostrazione che le comunità resistenti quando si organizzano riescono ad essere molto più efficienti della macchina istituzionale. Siamo un aggregato di collettivi autorganizzati insieme all’associazionismo religioso e non. Non riceviamo nessun aiuto dalle Istituzioni, l’unica cosa che abbiamo ricevuto – e ci sarebbe pure mancato! – è semplicemente il permesso per poter girare all’interno della Municipalità e fare quello che stiamo facendo. Tutti i beni di prima necessità che abbiamo raccolto e che abbiamo in questo momento in questa stanza provengono da una campagna di crowdfounding che abbiamo lanciato sin dalla prima settimana della pandemia e molti altri bancali di beni di prima necessità ci vengono donati come per esempio dal gruppo di Responsabilità Popolare piuttosto che da altre realtà. Scampia ha una tradizione di associazionismo molto lunga e si è avuto un’incidenza sul territorio proprio perché nonostante le diversità si cammina insieme per combattere l’isolamento e l’emarginazione. Con le persone, oltre a consegnare i beni di necessità, parliamo perché è chiaro che il dramma che vivono non verrà risolto dai buoni spesa o dalla spesa che portiamo noi ma si dovrà divenire massa critica per connettersi con le altre realtà cittadine al fine di supportarci a vicenda e per analizzare il prossimo futuro con sguardo critico. Oggi è 25 aprile, abbiamo deciso anche oggi di non restare a casa, di attraversare il quartiere portando la spesa alle famiglie che abbiamo in questa lista che abbiamo prodotto nel corso di queste settimane e porteremo il fiore al partigiano.

A Scampia c’è una via che si chiama via Fratelli Cervi e porteremo un mazzo di fori a questa targa e stenderemo uno striscione su cui abbiamo scritto Combatti la paura, Vivi il quartiere, Distruggi il fascismo”.

Testimonianze raccolte da Francesco Delia, Alessandro Di Rienzo. Giuseppe Ottaviano.
Foto di Francesco Delia

scritto con Maria Tavernini per TRT World il 20 aprile 2020

Covid-19 patients in Italy’s virus epicentre of Lombardy were transferred to nursing homes by an official resolution with catastrophic consequences.

In the early days of March, when northern Italy faced a severe health crisis from the coronavirus outbreak, the scarcity of available hospital beds brought the public health system to its knees. 

On March 8, a resolution by Attilio Fontana, president of the Lombardy region – Italy’s economic engine and the epicentre of the epidemic with 12,213 deceased – sentenced hundreds of elderly people hosted in nursing homes to death. 

The regional resolution offering150 euros ($163) to nursing homes for accepting Covid-19 patients to ease the burden on hospitals, contributed to the uncontrolled spread of the virus among health workers and elderly guests, turning these institutions into virus hotbeds.

Hosting Covid-19 patients in nursing homes was like lighting a match in a haystack. 

“We read it twice, we did not want to believe what we read,” says Luca Degani, president of UNEBA, the trade association that brings together about 400 rest homes in the region, “the virus affects everyone indistinctly, but its lethality and gravity take a very significant logarithmic curve if people are aged and suffer multiple pathologies.” 

“The fact that in our facilities we had people at greatest risk was a fact that had to be considered,” Degani explains to TRT World, “These structures are made to let the elderly socialise and be provided with adequate care. They are not made to respond to an acute disease caused by a pandemic infection.”

At least 1,822 people died in nursing homes in Lombardy, yet it is unknown how many were killed by coronavirus as many were never swabbed. 

Italian authorities have started investigations into nursing home deaths during the outbreak and police seized documents related to the Pio Albergo Trivulzio in Milan, a historic nursing home with over 1,000 elderly residents, and 13 other nursing homes in the region.

Coffins have been piling up inside the church at Trivulzio care home where 150 health workers, in a letter, accused the management of being aware of the dangers but not having reacted promptly. 

Until March 23, there were no protocols in place, whatsoever. Health workers reportedly assisted residents without personal protection equipment (PPE), and those with symptoms were not even isolated from others. 

The relatives of the victims and those still hosted at Trivulzio health facility have come together to ask for justice and are ready to file a class-action lawsuit. 

The Public Prosecutor’s Office in Milan is investigating the matter. The charge is a culpable epidemic and multiple culpable homicides.

“Besides support statements, I have also received numerous testimonies from family members of patients who, as in my case, have encountered serious and worrying deficiencies in the management of the health emergency that exploded inside the structure,” said Alessandro Azzoni, founder and spokesperson of the Justice and Truth Committee for the victims of Trivulzio, where at least 190 resident have died. 

“I am very concerned about the health of my mother – still a guest of the facility – whom, like so many other patients, is in a state of current danger,” he said. 

He expressed hope that the prosecutor will intervene promptly and also consider entrusting the management of the structure to a judicial administrator.

The governor of Lombardy Attilio Fontana and the councillor for Welfare, Giulio Gallera are in the eye of the storm, but they claim that the technicians of the local Health Protection Agencies are the ones responsible for transferring Covid-19 patients from hospitals to care homes. 

Meanwhile, over 50,000 signatures have been collected in just a few days to place the regional health administration under ‘receivership’ (outside management).

A massacre

Last Friday Silvio Brusaferro, chief of the Higher Health Institute (ISS), said that the “carnage” in nursing homes all over Italy had claimed 7,000 victims since February, of which at least 40 percent died due to coronavirus. 

“What has happened and is still happening in residences for the elderly is a massacre,” says Ranieri Guerra, deputy director of the World Health Organization and a consultant with the Italian Ministry of Health.

“The epidemic arrived in our facility on March 13 – but we were not aware of that – when 17 patients from Sesto San Giovanni hospital (on the outskirts of Milan) were admitted with the aim of easing the pressure on hospitals that no longer had beds,” Pietro La Grassa, health worker and trade unionist of Trivulzio in Milan explained to TRT World

“On the 17 on March we placed them in a non-Covid ward: we were not afraid because we were told by the hospital administration that they were not infected. Since then, the contagion has started spreading among doctors, nurses and health workers. In the blink of an eye, it reached, of course, the residents of the structure: the elderly.”

Last Thursday, Corrado Formigli, a well-known TV investigative journalist in Italy, in his “Piazza Pulita” a prime-time television broadcast, openly referred to a “massacre going on in nursing homes”.

He aired mobile videos shot by health workers where elderly residents are seen dyeing suffocated, alone, in the beds of the Milanese care home. 

The images were grotesque. 

“We were forbidden to wear masks because they told us we would have frightened the guests of the structure,” continues Pietro La Grassa, “our hosts saw their relatives with masks, on television they heard that the epidemic kills them above all, yet health workers were forbidden to wear protection.” 

According to Luca Degani, orders for PPE were seized and diverted from nursing homes to hospitals.

The result is that today in Trivulzio some 220 workers out of just over 600 are on sick leave with symptoms, fever or cough and some with pneumonia. 

For a long time, Covid-19 patients were not isolated and coexisted with others, the elderly. Until April 16, swabs were not available, so residents fell ill without knowing whether they had been infected or not. Their dead simply slipped off the official figures. 

At least 87 elderly have died in Trivulzio just since the beginning of this month. 

“Due to the ineptitude of someone, we have become a hotbed of the disease,” says La Grassa, “while it was immediately clear that elderly with pre-existing pathologies were the most vulnerable subjects in this epidemic, it was decided to turn care homes into Covid houses. We do not have intensive care and emergency rooms; what care could we provide?”

“An absolutely unjustifiable conduct,” comments Vittorio Agnoletto, a former member of the European Parliament and occupational doctor. 

“As early as March 8, in addition to having identified the virus and its transmission pattern, we knew quite clearly how it affects fragile people and mainly kills those over 70 years old. We knew exactly that nursing homes’ guests were the ideal victims of Covid-19,” he tells TRT World

A viral wave crashed on the most vulnerable

Agnoletto contextualises this debacle within a series of others triggered by the Lombardy administration. 

“The entire health model that delegates 40 percent of public health expenses to the private sector must be questioned. These private structures work on treatment, not on prevention because the former brings gains and the latter does not,” he says. 

“Besides, they work on specific care fields: cardiology, oncology, surgery, neglecting emergency and intensive care. This system needs people to be sick to keep on running.”

Military metaphors are routinely abused these days. 

“We had a frontline protection network that is made of our general practitioners, a prevention and control form that the world envied. For every citizen or migrant – regular or irregular – there is a doctor to establish a direct relationship with,” he says. 

According to Agnoletto, general practitioners were not provided with adequate protections until recently and were not informed of procedures and protocols to be adopted.

“There was a systemic error in such an advanced health system: attention was focused only on the hospital dimension,” agrees Luca Degani, “Pandemics are fought with prevention on the territory.”

Which is what general practitioners should do: have control of the territory, swab the people and take care of those most at risk.

“This network is like the breakwater supposed to cushion the impact of the wave. Yet, the virus wave arrived and crashed on the hospitals that could not cope with the load because, over the years, we have progressively cut beds reaching the lowest European average,” says Agnoletto, “We channelled the wave exactly on the most fragile subjects, creating clusters.”

But, above all, according to Agnoletto, official figures are a farce.

“National numbers are a joke, insignificant and unusable for any statistical purpose: they lack any forecasting logic. Summing up every day the newly infected to the total Covid cases makes the percentage of course smaller – he says – calculations are to be made on the number of the dead instead.”

Considering that the number of swabs is negligible and is not done on a given sample, the only reliable parameter of comparison is the account of total deaths over the same period in previous years.

“Only so we could have reliable data on the progress of the epidemic,” claims the doctor.

Throughout Italy, homes for the elderly have become critical hotspots during the Covid-19 outbreak. The same happened in other countries in Europe: in Spain out of 350, 000 people housed in care homes, 10,000 elderly have died, half of the total deaths due to the epidemic.

In France, deaths in the residences for the elderly reached 40 percent of the total deaths. In Belgium, in a few days, deaths in care homes for the elderly make up the majority of the deceased. But in Lombardy – where care homes have been picked to hospitalise Covid-19 patients – it just added to the ongoing tragedy.